Nasce l’amore
Solo chi si ama,desidera conoscersi bene si cerca ovunque,anche nelle cose deboli Non vola in alto per vedersi tra le nubi ma preferisce stare con chi gli è vicino Soltanto nell’altro eleva la sua umanità e vive il silenzio di […]
Il messaggio fondamentale della liturgia della Parola odierna è dato dal simbolismo della “luce”, che, già domenica scorsa, il profeta Isaia ha annunciato per il servo sofferente di Jahvè:”Io ti renderò luce delle nazioni”. Questa “grande luce” che Dio, attraverso il profeta, promette alle regioni di Zabulou e Neftali, soggiogate dal re dell’Assiria, è Gesù Cristo, il quale viene presentato dall’ evangelista Matteo come Colui che realizza le profezie del Vecchio Testamento.
Infatti, esplicito è il collegamento quando dice: ”Gesù……venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zabulou e di Neftali, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo per profeta Isaia”. Non solo Gesù è identificato in questa “grande luce”, ma anche il suo insegnamento si profila come una “grande luce”, che egli compendia in una sola espressione, carica di attrazione trasformante: ”Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino”. Qui, con forza, senza compromessi, proclama che la regalità di Dio si è fatta vicina all’uomo; e, per mezzo di Lui, Dio è entrato nel tempo, nella storia, per farsi compagno di viaggio dell’uomo; per bussare alla porta del suo cuore, onde elevarlo e trasformarlo in un’esperienza di grazia, di luce e di gioia.
Quella di Dio è una vicinanza che si realizza sì in Cristo, però esige un cambiamento profondo del cuore e della mente; una trasformazione interiore che diventa disponibilità, apertura. Pertanto, se nel messaggio di Cristo è centrale l’annuncio del regno di Dio, la nostra conversione è la condizione essenziale per entrarvi; se Gesù è la luce che risplende nel mondo, la sua accoglienza richiede che ognuno di noi debba mettersi in un atteggiamento di conversione permanente. Senza dimenticare che la conversione è già frutto del regno, è il segno della sua presenza. Infatti, nella misura in cui si arricchisce la nostra capacità di autotrasformazione, di cambiamento di vita in Cristo, nella stessa misura il regno di Dio si fa più vicino a noi.
Ebbene, i primi raggi di questa “grande luce” che è Cristo, e della conversione che opera nel cuore degli uomini, li vediamo quando Gesù chiama i quattro discepoli Pietro ed Andrea, Giacomo e Giovanni: ”seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Come si constata, non sono loro a seguire spontaneamente Cristo, ma è Lui che li sceglie e li chiama alla sequela, la quale non implica tanto la ricerca di una dottrina, quanto l’amore verso la sua Persona e il percorso sulla medesima strada, che arriva alla croce. Questi primi discepoli certamente non conoscono l’intensità significativa della sequela, alla quale vengono chiamati; ma la risposta, decisa e senza incertezze, mette in evidenza la disposizione del loro cuore: ”subito, lasciate le reti, lo seguirono”, inserendosi in una esistenza del tutto diversa, con un ribaltamento totale del loro essere.
Questo episodio non è semplice storia del passato senza proiezioni nel presente o senza creatività esistenziale per il futuro, ma vuole essere un modello di risposta, valido nel tempo e per sempre, per tutti gli uomini che, chiamati da Cristo alla fede, si convertono alla sua sequela. Ed in questa prospettiva di conversione possiamo leggere la seconda lettura, ripresa dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi, nella quale l’Apostolo condanna la stoltezza di tutti quei cristiani che per motivazioni personali, o di contesa o di simpatia, si rendono portatori di divisioni all’interno della Chiesa. A costoro San Paolo dice: ”non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di intenti”, perché Cristo è venuto a riunire e non a dividere.
Dividersi o contrapporsi nella Chiesa significa pervertire il concetto stesso di Chiesa. Purtroppo, molti cristiani, nel corso della storia, hanno frantumato l’unità della Chiesa in tante e diverse confessioni, dividendo davvero Cristo, con la trasgressione di quella preghiera, che Gesù, nel suo congedo da noi, rivolge al Padre: “che tutti siano una cosa sola, perché il mondo creda che Tu mi hai mandato”.
Piccole e grandi sono le divisioni che, purtroppo, registra la storia della Chiesa. Al di là di quelle piccole vissute nell’ambito delle nostre stesse comunità, ricordiamo le grandi scissioni avvenute nella Chiesa nel corso del tempo: lo scisma d’oriente nel sec. XI° che dette inizio nel 1054 alla Chiesa ortodossa con Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli; lo scisma d’occidente nel 1517 in Germania con Martin Lutero; l’altra divisione in Inghilterra con Enrico VIII° nel 1534 che segna la nascita delle Chiese protestanti.
Queste divisioni sono pesanti come macigni sull’unità dei cristiani. Macigni, però, che possono essere eliminati se, tutti aperti allo Spirito, rivisitiamo gli avvenimenti storici non più nell’ottica dei personalismi, ma alla luce della parola di Dio, convinti che è più quello che ci unisce che quello che ci divide. Credo che dobbiamo imparare con sincerità ad amare di più ciò che siamo, senza però odiare ciò che non siamo. Non è cristiano alzare barriere di divisione nei confronti di chi pensa diversamente. Nel rispetto delle legittime differenze, attraverso l’amore ed il dialogo, dobbiamo sentirci impegnati in una vera opera di conversione al regno di Dio, consapevoli che quando ci riuniamo nel nome di Gesù, Egli è in mezzo a noi.
La fede è necessaria per vivere. La fede non è un optional. L’uomo ha bisogno di Dio o le cose vanno ugualmente bene anche senza Dio? Se l’uomo dimentica Dio – amava ripetere Benedetto XVI – perde sempre più la vita, perché la sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio; l’uomo è essere relazionale, è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Dio. Per cui la fede non è un elemento accessorio, ma è necessaria all’uomo per vivere. L’uomo è capace di Dio (capax Dei); nel suo cuore è inscritto il desiderio profondo di Dio, che è desiderio di gioia, di pienezza, desiderio di Cielo. L’uomo è fatto per andare oltre l’umano, per trovare in Dio il significato del suo essere pienamente uomo. Ecco allora la necessità della fede per l’uomo. Papa Francesco, con una immagine ad effetto immediato, semplice, ma diretta e toccante, così ha espresso la necessità della fede per la vita dell’uomo: “La fede non è una cosa decorativa, ornamentale, non è decorare la vita con un po’ di religione … come si fa con la panna che decora la torta” (Angelus 18 agosto 2013). Pur essendo l’uomo aperto al Trascendente, pur essendo l’uomo capace di Dio e della relazione con Lui, non può conoscere Dio unicamente confidando nelle proprie forze o capacità. La fede nasce dal dono della Rivelazione e dalla grazia di aderivi. Per quanto l’uomo cerchi Dio, per quanto tenti di vedere il suo volto, per quanto si sforzi di conoscere il suo mistero, non può farlo con le sole proprie forze. L’uomo cerca Dio con tutte le sue capacità. Questa ricerca è santa, è bella, ma da sola non può raggiungere Dio; è necessaria la Rivelazione, l’autocomunicazione di Dio; e ancora di più è necessaria la grazia che permette all’uomo di aderire con gioia e libertà alla Rivelazione di Dio e al suo disegno provvidenziale sulla storia. La fede è risposta; la fede è dono; la fede nasce dallo stupore dinanzi a Dio che gratuitamente si rivela e si dona. È consegna di sé al Dio Amore che per primo si è consegnato all’uomo nel suo Figlio Gesù. Questa misteriosa e reciproca “consegna” dà all’umano esistere pienezza di senso.
A cura di don Agostino Porreca
La maternità è sempre un dono di Dio non solo per se’, ma anche per gli altri.
Non importa se ad essere madre sia una suora: un evento altrettanto bello che non può però essere banalizzato da dichiarazioni da crocicchio, che rivelano la solita povertà di spirito da parte di chi si ferma alla semplice cronaca e non scende nella problematica esistenziale della donna- madre al di la della suora.
Certo è una notizia ricca di curiosità, che acuisce gli artigli della fantasia, ma non può perdersi solo nella ragnatela di tali pensieri.
Tale evento dovrebbe aprire,invece, una riflessione attenta sulla vocazione in genere, e su quella, in particolare delle suore straniere, le quali affollano un po’ tutte le congregazioni italiane, come se la chiamata del Signore fosse diventata loro esclusivo privilegio.
Con le feste dell’Epifania e del Battesimo di Gesù sono finite le celebrazioni del tempo liturgico del Natale. Co questa domenica inizia il tempo ordinario, detto così, perché con esso non celebriamo i momenti forti della storia della salvezza, quali l’’Avvento, il Natale, la Quaresima, la Pasqua, ma soltanto il mistero di Cristo nella sua vita pubblica. Un tempo che ci permette di conoscere e di vivere quanto Gesù ha compiuto in opere e parole qui, in mezzo a noi.
Il Vangelo di Giovanni ci offre una preziosa testimonianza del Battista, il quale, per primo, manifesta al popolo presente sia la figura che la missione di Cristo, indicato come “Agnello di Dio”, “Colui che toglie il peccato del mondo”.
Affermazioni ricche di significato, che certamente meritano attenta riflessione.
Relativamente all’indicazione di Gesù, quale “Agnello di Dio”, non è del tutto chiaro che cosa intendesse dire il Battista con questa immagine. Secondo alcuni, con tale designazione ha voluto riferirsi all’”Agnello pasquale”: un’immagine molto cara e familiare agli Ebrei, i quali ogni anno celebravano la Pasqua con il rito dell’agnello, che i loro antenati avevano consumato prima di partire dall’Egitto. Con tale rito non solo rievocavano fatti storici: la loro liberazione, il passaggio attraverso il mar Rosso, l’Alleanza stipulata sul Sinai; ma tramite tale rievocazione essi davano a questi avvenimenti efficacia anche nel presente. Secondo altri, con tale indicazione il Battista ha voluto riferirsi al servo sofferente di Iahvè. Una figura questa che domina il Vecchio Testamento e che nel profeta Isaia acquista connotazioni fortemente messianiche, tanto è vero che Gesù applica a Sé questi carmi, soprattutto là dove il profeta dice “maltrattato si lasciò umiliare……era come agnello condotto al macello”.
Pertanto, senza esclusivizzare l’immagine dell’agnello a questo oppure a quel riferimento biblico, possiamo senz’altro affermare che entrambe le figure “servo di Jahvè” e “Agnello di Dio” sono legate alla sofferenza, al sacrificio; e stanno ad indicare che Cristo è nello stesso tempo servo sofferente che, con la sua immolazione “fatta una volta per sempre”, realizza la Pasqua definitiva.
Oltre all’immagine dell’agnello è necessario anche sottolineare la missione che il Battista attribuisce a Gesù, quando lo indica come “Colui che toglie il peccato del mondo”. Prendendo su di sé i nostri peccati, Egli, oltre a cancellarli, inaugura il tempo della santità, indicandoci lo stile di vita che dobbiamo avere. Purtroppo, non possiamo negare che il peccato è una triste realtà, presente tra di noi ed in ognuno di noi. Anche se siamo stati redenti, non siamo stati resi perfetti, per cui facilmente ci lasciamo sedurre dalle tentazioni della superbia, dell’odio, della vendetta; facilmente scivoliamo nelle situazioni di peccato che offuscano la nostra dignità umana e cristiana. Però non dobbiamo scoraggiarci, perché abbiamo questa grande speranza: Gesù è l’Agnello che toglie il peccato del mondo. In Lui, per Lui e con Lui, noi possiamo ricevere il male e costruire un mondo più umanizzato, più pacificato, più giusto.
Ma la testimonianza del Battista colpisce anche per la sua dichiarazione che Gesù è il Figlio di Dio. Anzi, nelle sue parole troviamo un crescendo che inizia con il riconoscere che Gesù è “l’Agnello di Dio”, il Messia sofferente; progredisce con la visione dello Spirito Santo che scende su di Lui in forma di colomba; culmina con l’attestazione esplicita della filiazione divina di Gesù: ”E io ho visto e ho reso testimonianza – dice il Battista – che questi è il Figlio di Dio”. Ci troviamo davanti ad un vero e proprio cammino di fede verso la conoscenza del mistero di Dio, attuato in Cristo. Questa testimonianza del Battista diventa esemplare anche per il nostro cammino di fede, spesso segnato da dubbi, perplessità e disorientamenti. Come il Battista, anche noi siamo in cammino, in crescita nella fede, passando progressivamente dalla non conoscenza alla conoscenza del Signore. E conoscere Gesù è un impegno primario per noi cristiani. Non possiamo amare né seguire né tanto meno testimoniare chi non conosciamo. La conoscenza è la condizione essenziale ed indispensabile per accettare una persona e per essere disposta a soffrire per essa. Solo conoscendo l’amore di Cristo, redentore del mondo, penetrato, in modo unico ed irrepetibile, nel mistero dell’uomo e nel suo cuore, noi possiamo percorrere la via dell’amore che si sacrifica per gli altri; e, nello stesso tempo, possiamo adoperarci, con la testimonianza della parola e con l’impegno della vita, a rendere visibile la luce di Cristo, che ci è stata donata, perché diventiamo altrettante luci di carità, di solidarietà e di condivisione, in obbedienza alla volontà del Padre.
«A Dio che rivela è dovuta «l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente» (Dei Verbum 5). Con questo testo il Concilio Vaticano II ci dona una preziosa descrizione della realtà della fede che supera quella concezione intellettualistica e contenutistica che si era imposta con il Concilio Vaticano I. Credere non significa aderire intellettualmente ad alcune verità rivelate; credere non equivale semplicemente a prestare l’assenso dell’intelletto e della volontà ad un corpus dottrinale. Aver fede significa prima di ogni cosa abbandonare la propria vita nelle mani di un Altro che abbiamo riconosciuto come il centro, il fondamento e il senso della nostra storia personale. La fede è sì assenso dell’intelletto e della volontà a Dio che si rivela, ma è anche adesione totale e libera dell’uomo. La fede nasce e si sviluppa all’interno di un rapporto interpersonale e storico, che matura nella comunità ecclesiale. La fede è dialogo interpersonale, interpellante incontro di libertà. Dio, nella sua bontà e sapienza, in maniera assolutamente gratuita e incondizionata, desidera da sempre aprire un dialogo salvante con l’uomo, un salutis colloquium (Paolo VI). La fede è dunque ob-audio, fiducioso affidamento di sé a Dio che si rivela in Cristo come Amore, ascolto dinamicamente proteso verso una Parola portatrice di senso ultimo e definitivo, abbandono totale, libero e consapevole, reso possibile dall’iniziativa gratuita e libera di un Padre, che «muove il cuore» dell’uomo e «apre gli occhi dello spirito», donando a tutti dolcezza e soavità nel consentire e nel credere alle verità. Aver fede è dire “Io credo in Te, Gesù, quale senso pieno della mia vita”. Avere fede è abbandonarsi con l’atteggiamento del bambino ad un «Tu che mi sostiene e che, nell’incompiutezza e nella profonda inappagabilità di ogni incontro umano, mi accorda la promessa di un amore indistruttibile, che non solo aspira all’eternità, ma ce la dona» (J. Ratzinger).
A cura di Don Agostino Porreca
La celebrazione liturgica del Battesimo di Gesù ha una sua grandiosità, una sua ricchezza che non può essere interpretata esclusivamente o prevalentemente in chiave di anticipazione prefigurativa del nostro Battesimo.
Il Battesimo di Gesù è qualcosa che riguarda soprattutto Lui e la Sua missione di salvezza in mezzo agli uomini.
Il riferimento al nostro Battesimo è solo una conseguenza.
Tuttavia, esso è un evento salvifico pieno di mistero, che viene come spiegato dalle parole di Giovanni Battista e dalla irruzione dello Spirito Santo in forma di colomba. La scena si svolge sulle sponde del fiume Giordano in un contesto apparentemente ordinario, ma attraversato dal divino e dal soprannaturale.
Centrale rimane il gesto di Gesù che domanda di essere battezzato.
Il brano del Vangelo lo si può dividere in due parti: la prima presenta il Battista che rende la sua testimonianza a Gesù; la seconda descrive la scena del Battesimo di Gesù.
A questo punto, è opportuno sottolineare che il Battesimo del Battista era un rito di purificazione completamente diverso dagli altri in uso al suo tempo. Esso voleva essere non solo una pubblica accusa dei propri peccati ed un impegno pubblico a convertirsi e a rinnovarsi interiormente, ma era soprattutto ordinato ad annunciare e a predisporre la venuta del Messia. Per cui il Battesimo del Battista non aveva tanto valore in sé, quanto per quello che preannunciava.
E chi preannunciava? “Dopo di me viene uno che è più forte di me ed al quale io non sono degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”.
La missione di Giovanni è precisamente quella di fare spazio al “più forte che, pur venendo dopo di lui, gli passerà avanti”. Proprio perché “più forte”, il Messia avrà la possibilità di rinnovare e di trasformare il cuore degli uomini molto di più di quanto potesse fare il Battesimo di sola acqua del Battista:”Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”.
Parole che richiamano quella pienezza trasformante dello Spirito che il profeta Ezechiele così preannuncia:”Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati……Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi”. Espressioni meravigliose che evidenziano una grande immersione nello Spirito; questo è il Battesimo nuovo con il quale Gesù battezzerà tutti i credenti nel suo nome.
Alla luce di quanto abbiamo detto è più facile comprendere la scena del Battesimo di Gesù. Egli come normale giudeo va a ricevere il Battesimo di Giovanni; compie così un gesto di abbassamento che lo colloca alla pari di tutti; un gesto che non ha altra spiegazione se non quella di esprimere la sua solidarietà con tutti noi che siamo figli del peccato. E questo gesto di abbassamento, con cui Gesù inaugura davanti al mondo la sua missione di salvezza, riceve l’approvazione del cielo, espressa con l’immagine dei “Cieli che si aprono”.
L’immagine poi dello Spirito, che scende in forma di colomba, evoca la tenerezza amorosa del Padre Celeste,che si china sul proprio Figlio diletto allo stesso modo con cui una colomba si avvicina ai suoi piccoli, svolazzando attorno a loro.
Ebbene, nel Battesimo di Gesù, Dio fa pubblicamente la sua dichiarazione di paternità:”Egli, l’Invisibile, rivela che è Padre e che quel Gesù che esce dalle acque del Giordano è Suo Figlio”.
E nel Figlio Gesù noi, rinnovati dall’acqua e dallo Spirito, diventiamo figli diletti del Padre.
Pertanto, contemplando il Battesimo di Gesù, noi veniamo a prendere coscienza della nostra identità di figli adottivi. Anzi più contempliamo il Figlio e più acquistiamo coscienza della nostra filiazione adottiva. Più viviamo da figli adottivi e più il Figlio ci guida nel grembo della vita trinitaria, fino a renderci “partecipi della natura divina”.
Purtroppo, ci siamo abituati troppo a vivere come creature di Dio, ma non abbastanza come figli di Dio. Per cui facilmente dimentichiamo che Gesù è sì il Figlio Unigenito, ma è anche il primogenito tra molti fratelli. Così in Lui e grazie a Lui, il Padre dice a ognuno di noi:”Tu sei mio Figlio”.
Scrive il Claudel:”Voi avete un Padre in cielo che non sa più come distinguervi da Suo Figlio”. Sì, presso il Padre noi formiamo con il Figlio Gesù un solo essere filiale.
Ma allora, se è così, perché tanta cattiveria fra di noi? Perché tanto odio, tanto disimpegno sociale, tanta indifferenza? Perché chiudere gli occhi verso chi chiede un sorriso di affetto o verso chi tende le mani per qualcosa?
Ebbene, se vogliamo sentirci realmente familiari di Dio, dobbiamo riscoprire la nostra dignità di figli; solo nella consapevolezza di tale dignità, saremo più generosi e solidali verso tutti i nostri fratelli e, nello stesso tempo, gustiamo di più la gioia che lassù abbiamo un Padre che ci ama con la stessa bontà con cui ama il proprio Figlio Gesu’.
La riforma elettorale è una esigenza indilazionabile.
E’ l’unica strada valida per il ritorno all’amore verso la politica, la quale, al di là del disagio affettivo, generato da una sequela di comportamenti maldestri e poco dignitosi, resta il vero mondo, dove ognuno può esprimere se stesso nell’interesse della collettività.
Purtroppo, in quest’ultimo ventennio, la mania partitica l’ ha svilita, facendola scivolare in un mosaico di tasselli voluti dai capi e non più dalla volontà popolare, del tutto espropriata dei suoi poteri di scelta.
Il pensiero dominante dei nuovi politici non è stato il rispetto della rappresentatività popolare, che creava interesse per scelte qualificate di persone conosciute e nelle quali ognuno aveva fiducia, ma solo l’intrigo artificioso, per realizzare una corte di incerti personaggi, pronti ai ” sì ” di convenienza e non di intelligenza autonoma, finalizzata al bene della collettività.
Oggi non basta parlare di riforma elettorale, è necessario trovare gli ingrediendi validi per un risveglio d’amore verso la politica sana e vera.
E il ritorno alla ” preferenza ” potrebbe costituire il veicolo per un approdo fecondo, in cui ognuno rigusterà il sapore di essere protagonista e non semplice comparsa.
Il mio è un intervento intessuto di considerazioni, generate essenzialmente dalla visione di una realtà, la nostra, dove quasi tutto si misura sull’avere e poco o nulla sul rispetto dell’essere e,quindi, della dignità della persona. Sembra ascoltare il grido inquietante di Fromm,quando dice:”l’uomo è morto,viva la cosa”,soprattutto la cosa che produce ricchezza,consumismo,indipendentemente dalla realizzazione di chi la produce e dall’integrazione del lavoro nella costruzione di una sana vita personale e relazionale.
Non si può negare che oggi molti dimenticano o banalizzano la priorità dell’uomo, la dignità e la finalità del lavoro, sacrificate spesso sull’altare di una dinamica di mercato e di produzione, interpretata come indipendente dallo stesso soggetto del lavoro. Purtroppo c’è più attenzione al significato oggettivo del lavoro che a quello soggettivo, trascurando così che l’uomo,come persona, è il vero soggetto del lavoro. Pertanto,qualunque sia l’oggetto della sua attività, essa deve mirare alla realizzazione della propria umanità. Ed è proprio questa dimensione soggettiva, personale del lavoro che fonda la sua stessa sostanza etica. Il che significa che il lavoro si misura con il metro della dignità dell’uomo che lo realizza: il valore vero è il soggetto che opera,non tanto le cose che egli realizza o la realtà che domina. Considerare il lavoro come una merce sui generis, una forza anonima del processo di produzione e trattare l’uomo come uno strumento e non come soggetto e, quindi, come vero scopo di tutto il processo produttivo, significa negare la stessa grandezza e dignità dell’uomo e vederlo solo come parte di un meccanismo socioeconomico. Nessuno uomo deve essere stimato un mezzo per i fini di un altro né deve essere usato per fini che non siano quelli del suo sviluppo umano integrale. Il che comporta che una azienda, una impresa non deve guardare solo il risultato finale, vedendo il soggetto del lavoro come un semplice fornitore, in grado di erogare una prestazione, ma deve saper organizzare un contesto di reciproche responsabilità, dove il lavoro viene visto sia come un bene,che offre possibilità di sostentamento ed opportunità di crescita umana,spirituale e professionale; sia come dono di sé,di servizio per il bene comune, di apertura verso gli altri,di altruismo. Naturalmente questo contesto di corresponsabilità, che dovrebbe vedere coinvolti lavoratori ed imprenditori,esige per i primi passione per il proprio lavoro e professionalità; per i secondi, l’impegno a migliorare la qualità del contesto umano ed organizzativo in cui si lavora, in modo che ognuno possa dare il meglio di sé. Guidati da tali obiettivi,entrambi non si esauriscono ad avere“il più”, quanto piuttosto ad essere “di più”.
Pertanto, se negli uni o negli altri vengono a mancare queste tensioni etiche, che creano corrette relazioni, certamente funzionali allo svolgimento delle attività produttive, facilmente si scivola in un andirivieni di interessi particolari, che sviliscono non solo il lavoro in sé e l’interpersonalità tra i suoi soggetti, ma anche lo stesso interesse aziendale, generando confusione e reciproca volontà di tutelare non il bene dell’azienda o dell’impresa, ma solo il proprio immediato e momentaneo “particolare”, per il cui raggiungimento si adoperano tutti i mezzi, spesso anche illeciti. Invece, in una dinamica di attente responsabilità, animate da un reciproco spirito di servizio e di cooperazione per il bene comune,che stanno alla base di una autentica umanizzazione della vita economica, si creano e si delineano prospettive di collaborazione nell’interesse delle rispettive dignità dei soggetti del lavoro:lavoratori ed imprenditori, e della stessa azienda od impresa, che viene a configurarsi non più come un “quid” impersonale, in cui calare semplicemente le proprie pretese, ma come un “quid” personalizzato e familiare, nel quale tutti si ritrovano come protagonisti e non più come comparse di cui servirsi. Se il lavoro viene così interpretato ed i rapporti tra i suoi soggetti così vissuti, allora tutto diventa semplice e sopportabile; persino le normative giuridiche che si rincorrono sulla sicurezza delle attività lavorative non saranno stimate come pesi da evitare, ma come “doni” da applicare, per la comune salvaguardia.
A questo punto, ci si rende conto, lasciandosi dirigere da tali premesse, che la sicurezza in qualsiasi settore e, soprattutto, in quello dell’edilizia, è una realtà coinvolgente le coscienze e l’attività professionale di tutti: lavoratori, imprenditori, il personale addetto alla vigilanza dei cantieri, progettisti ed esecutori delle opere edili, per i quali deve comportare una maggiore attività formativa ed informativa di prevenzione, nella comune consapevolezza che gli incidenti sul lavoro, molto spesso non sono una fatalità e neppure il prezzo da pagare alla complessità del processo produttivo, ma sono il risultato o di una mancata osservanza delle più elementari misure di prevenzione o di una mancata motivazione che nasce dalla passione per il proprio lavoro.
Personalmente sono convinto che se tutti i soggetti del lavoro: lavoratori ed imprenditori riconoscessero la priorità dell’etica sulla tecnica, del primato della persona sulle cose,della superiorità dello spirito sulla materia, essi scoprirebbero che nel lavoro c’è qualcosa di veramente prezioso, che lo rende meritevole di essere amato:l’uomo, indipendentemente dal ruolo,con la sua dignità e la ricchezza della sua umanità.
Il mistero
Come vorrei comprendere
il Tuo e il mio mistero
turbinio di idee che si
fermano quasi sempre là
dove è la soglia Ultima
A volte allungo le mani
perché mi sembri Vicino
a volte ti vedo Lontano
come un specchio magico
ove la identità Tua mia
si velano e si rivelano
Ma Tu,Lontano Vicino,se
veramente mi ami perché
non mi sussurri chi sei?
Non mi dici io chi sono?
Se Tu, o Dio, sei l’unico
sogno per il quale ogni
attimo io consumo,fammi
incontrare con il Sogno
sì da vedere l’ Infinito
sulla nebbia della fede
e rendermi uomo di luce
Definiscimi nella verità
Tu mi definisci qualcuno,ma
io non so chi sono e tu che
mi accompagni per tante vie
non domandarmi più chi sono
Ascolti leggi quel che noti
puoi dipingermi un marinaio
di Dio nella tempesta, forse
un angelo di speranza sceso
sulle continue disperazioni
certo definiscimi come vuoi
purchè mi vedi nella verità
Il vero cielo
Io so che esiste un cielo
diverso da ciò che ammiro
ove gli uomini non vivono
gli uccelli non si posano
E’ il cielo sognato da chi
medita di vedersi con Dio
è il cielo senza luna, ove
tu accendi stelle d’amore
E’ il cielo vero, ove senza
ascoltare lamenti di voci
senza notare notte giorno
ti senti nel cuore di Dio
Mi manca ancora qualcosa
Temo di essere un naufrago
anche se passo ogni giorno
per un fiume sempre uguale
Navigo tra sponde tortuose
senza porti ed onde marine
con la bussola poco chiara
Ad ogni miraggio intravedo
l’ attimo dell’ Infinito che
subito fugge via, facendomi
unico barcaiolo della vita
So di essere alla porta ma
nulla mi indica l’ ingresso
la barca è ancora non nuda
per entrare cheta in porto
La liturgia di questa II^ domenica dopo Natale è ancora pervasa dallo spirito natalizio; gustiamo ancora lo stupore del mistero della nascita di Gesù Cristo, il quale fissa la Sua tenda in mezzo a noi, per introdurci nello splendore della conoscenza e della intimità di Dio.
Le tre letture bibliche, attraverso un intreccio di tematiche, che evidenziano l’armonia fra Antico e Nuovo Testamento, offrono alla nostra considerazione l’amore silenzioso e manifesto di Dio verso la creatura, dalla quale aspetta il suo esodo, cioè la sua uscita da sé per incontrarLo.
Nella prima lettura, ripresa dal libro del Siracide, contempliamo la Sapienza, la quale esce dalla stessa bocca di Dio per approdare sulla terra. Qui, fissa la sua tenda a Gerusalemme; prende in eredità il popolo di Israele, e con esso si incammina verso il tempio, per celebrare il culto.
Pertanto, all’origine del mondo creato, della predilezione che Dio nutre verso Israele e dello stesso culto, c’è la sapienza di Dio, che, uscendo da sé, rompe il silenzio ed entra in contatto con le sue creature.
Siamo davanti ad una solenne personificazione della Sapienza, che per la interpretazione cristiana non solo è un’immagine letteraria,ma è anche realizzazione concreta in una persona concreta, che è Gesù Cristo. Il quale, dalla luce divina, entra nella storia degli uomini, nascondendosi in mezzo a loro e divenendo uno di loro.
E’ quanto ci dice il prologo del Vangelo di Giovanni, attraverso il quale sappiamo che il Verbo, la Parola, per mezzo della quale Dio realizza la creazione, venne nel mondo e stava nel mondo.
Meravigliosi sono i primi versetti del Prologo, che ci permettono di contemplare l’eternità dell’esistenza di Cristo, che si perde nell’eternità di Dio:”In principio era il Verbo/ e il Verbo era presso Dio/ e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”.
Nello stesso tempo, tali versetti ci dicono quanto noi siamo pensati ed amati da Dio, il quale non ci considera alla rinfusa, ma ci tiene scritti, individualmente,come figli sul palmo della Sua mano.
Un’intensità di amore infinito che lo conduce ad annientarsi nell’uomo:”E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
Venne come Vita per renderci partecipi della vita stessa di Dio; ma noi continuiamo a preferire la morte, attaccandoci al guinzaglio di padroni inesistenti.
Venne come Luce, ma noi increduli, continuiamo a naufragare nelle tenebre, lasciandoci sedurre dai falsi miraggi della verità.
Venne in mezzo a noi, nel mondo, identificandosi con gli ultimi, ma noi continuiamo a cercarlo fuori dal mondo e dall’uomo, ritirandoci nelle nostre stanze bloccate dall’egoismo e dall’orgoglio.
Ma Egli continua a venire; continua a passare per le nostre strade, dicendo ad ognuno:”Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. (Ap. 3,20).
Se lo accogliamo e lo facciamo entrare nella nostra vita, aprendoci alle esigenze del Vangelo, Egli ci trasformerà dal di dentro, ci farà diventare suoi amici ; ed in Lui, Figlio, saremo figli di Dio.
E’ proprio quanto ci dice il prologo di Giovanni, in contrapposizione a coloro che hanno respinto Gesù:”A quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.
E San Paolo, nella lettera agli Efesini, afferma che Dio ci ama tanto che già “prima della creazione del mondo ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”.
Il che significa che Dio ci ama come siamo; ci pensa e ci vede in Cristo da sempre; ma noi non dobbiamo chiudere gli occhi, fermandoci alla soglia del mistero; dobbiamo entrare, come pellegrini del cielo, nel mondo delle meraviglie di Dio, consapevoli della speranza alla quale siamo stati chiamati:”il tesoro di gloria” che Egli dà in eredità a chi ama.