Nasce l’amore
Solo chi si ama,desidera conoscersi bene si cerca ovunque,anche nelle cose deboli Non vola in alto per vedersi tra le nubi ma preferisce stare con chi gli è vicino Soltanto nell’altro eleva la sua umanità e vive il silenzio di […]
Le letture bibliche di questa domenica, ricche di contenuto teologico, delineano una stupenda catechesi. Nella prima, ripresa dagli Atti degli Apostoli, leggiamo squarci storici della primitiva comunità cristiana, organizzata come un “corpo vivo”, con diversi compiti, come il servizio della carità, della parola e del culto. Nella seconda, tratta dalla prima lettera di San Pietro, vediamo le connotazioni di questo “corpo vivo”, quale “popolo sacerdotale”, i cui membri sono pietre vive della Chiesa, che ha come pietra angolare il Signore risorto. Nel brano evangelico di Giovanni, troviamo un accorato invito di Gesù a credere sempre più profondamente nel suo mistero di Figlio del Padre. Ma, data la molteplicità delle lezioni che possiamo trarre da queste letture, è opportuno fermarci al brano del Vangelo, preso dai “discorsi di addio” che Gesù rivolge ai discepoli nell’ultima Cena. Gesù inizia con parole di consolazione ai suoi, perché non si perdano d’animo: ”Non sia turbato – dice – il vostro cuore”. La sua è una finezza psicologica che mira a liberarli da uno stato di disorientamento e di amarezza in cui sono caduti dopo l’annuncio del tradimento di Guida e i ripetuti riferimenti alla sua morte di croce. E’ un momento particolare della vita di Gesù, che gli apostoli percepiscono con grande sofferenza. Ecco perché, in quest’ora drammatica, nella quale sembrano tramontare speranze e certezze, Egli più che preoccuparsi di se stesso per quanto gli sta accadendo, si sforza di fortificare la loro fede in Dio ed in Lui: ”Abbiate fede in Dio – dice – e abbiate fede anche in me”. Un doppio imperativo con il quale Gesù non solo rivela implicitamente il mistero divino della Sua Persona uguale e distinta da quella del Padre, ma cerca anche di creare una più intensa fiducia nei discepoli, quasi a voler dire che l’amore del Padre e del Figlio è sempre presente nella vita di ciascuno di loro. E pur di dare una maggiore concretezza alle parole di incoraggiamento, offre un ulteriore motivo di consolazione, dichiarando che “nella casa del Padre vi sono molti posti……Ed Io vado a prepararvi un posto”. E’ una immagine bellissima con cui Gesù configura il Regno di Dio come una casa ricca di molti posti o dimore, dove tutti noi, suoi seguaci, un giorno vivremo in comunione di amore e di vita eterna con il Padre celeste e con lo stesso Gesù Cristo glorificato. E questa è la grande promessa di Gesù: “Ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”. Certamente siamo al cospetto di una solenne dichiarazione d’amore, la quale si riferisce immediatamente alle apparizioni del Risorto, che comportano la certezza della Sua persona permanente in mezzo a noi, ma, in linea prospettica, tale dichiarazione ci richiama alla parusia, cioè al grande ritorno di Cristo Signore, come Salvatore definitivo ed universale. Ed anche se questa parusia, o grande ritorno di Gesù, non è un fatto imminente, essa fonda l’attesa della Chiesa e sostiene il nostro presente, di pellegrini verso la Casa del Padre. Così Gesù, indicando ai discepoli il Padre come dimora eterna, ultimo traguardo della loro vita, li istruisce e li corrobora nella fede. In altre parole, Gesù – come dice San Agostino – “prepara le dimore, preparando coloro che dovranno abitarvi”. Purtroppo, questo linguaggio di Gesù non viene compreso dagli Apostoli, tanto è vero che quando aggiunge:” e del luogo dove io vado, voi conoscete la via”, Tommaso, con un forte senso di realismo, domanda: ”Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. La risposta di Gesù è “una rivelazione di altissima certezza”, che “mira ad inculcare la fede in Lui, quale unica via per giungere al Padre”: ”Io sono – dice – la via, la verità e la vita”. Tocchiamo il massimo della rivelazione del mistero di Cristo in relazione al Padre e alla nostra salvezza. Il punto principale, anche se Gesù si presenta come “verità e vita”, è racchiuso nella presentazione della Sua Persona come via: “Egli è la via”, in quanto è la “verità”, cioè la rivelazione diretta, visibile e definitiva del Dio invisibile. Non solo, Gesù oltre ad essere la “via della verità”, è anche la “via della vita”, nel senso che Egli è il datore della vita eterna di Dio offerta agli uomini. In altre parole, Gesù è il crocevia per arrivare al Padre: ”Nessuno viene al Padre – dichiara – se non per mezzo di me”. E qui si inserisce, come perla preziosa, un’altra richiesta, quella dell’Apostolo Filippo: ”Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Una domanda che offre a Gesù la possibilità di affermare la perfetta identità tra Lui ed il Padre. Così, prima esprime la sua meraviglia: ”Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?”. E poi spiega la propria identità con il Padre. La quale è comunanza di essere :”Io sono nel Padre ed il Padre è in me”. E’ reciprocità e continuità di rivelazione: ”Le parole che io vi dico, non le dico da me”; ma “le dico come il Padre le ha detto a me”. Pertanto, gli Apostoli, che si erano fermati alla semplice fisionomia umana di Gesù e non riescono ad andare oltre, ricevono un profondo insegnamento, quello, cioè, di vedere in Gesù Figlio la presenza personale del Padre invisibile. Ed è proprio per questo che Gesù si fa “via” unica e necessaria per giungere alla casa del Padre. Bellissima, a tal uopo, è un’antica preghiera bizantina: ”Fa, o Signore, che i nostri occhi, fissi nei tuoi, sappiano riconoscere la luce del Padre, sappiano leggere nelle tue labbra le parole del Padre, sappiano scorgere nelle tue mani le opere che il Padre compie sempre, sappiano seguire i tuoi passi che ci conducono alla gloria del Tuo Regno”.
La liturgia della Parola di questa domenica è dominata dalla figura del buon Pastore. E’ un’immagine questa molto cara agli Ebrei, le cui origini nomadi dimostrano chiaramente la familiarità che avevano con il proprio gregge. Un rapporto di familiarità che trasportano anche sul piano religioso, fino a configurare l’amore di Dio come quello del pastore verso le pecore. Anzi, Dio stesso viene indicato dai profeti come il Pastore di Israele, che fa uscire il suo popolo dall’Egitto, come da un recinto, conducendolo verso i nuovi pascoli della terra promessa. Senza spaziare con ulteriori riferimenti biblici, basti pensare al salmo 22, recitato oggi come salmo responsoriale, nel quale gustiamo, in maniera feconda, questa bellissima immagine, che poggia sulla garanzia di sicurezza e di felicità che il Signore, come il Pastore per il suo gregge, offre con la sua Presenza in mezzo a noi. Una sicurezza che troviamo racchiusa nel ritornello del salmo: ”Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Anche nella seconda lettura, ripresa dalla prima lettera di Pietro, ritorna l’immagine del pastore. Un pastore, però, che ci conduce verso i pascoli dell’Eternità con il suo sacrificio, facendosi centro di attrazione per tutti, chiamati a seguire le orme da Lui tracciate: ”Cristo patì per voi – dice San Pietro – lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme……Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”.
Ebbene, a questo punto, esaminiamo il brano evangelico di Giovanni, nel quale leggiamo il discorso che Gesù fa di se stesso come buon Pastore a Gerusalemme; e, precisamente, dopo il miracolo della guarigione del cieco nato. Il linguaggio adoperato è preso dagli usi pastorali del tempo e manifesta un valore altamente teologico di autorivelazione: Gesù, cioè, si presenta come il pastore atteso dalle genti, che ama fino al sacrificio supremo; e, nello stesso tempo, si definisce come la porta unica e necessaria per accedere alla salvezza. Questa rivelazione di Sé la constatiamo sin dalle prime batture della parabola, dove si staglia un confronto drammatico fra il pastore vero ed il ladro e brigante, nonché fra il loro modo diverso di entrare nel recinto delle pecore. Un confronto, questo, che prepara bene l’autopresentazione di Gesù quale “porta delle pecore” e “buon pastore”, e certamente configura un taglio polemico contro tutti coloro che penetrano nell’ovile non per la porta, ma attraverso altre parti con furbi espedienti. A differenza di questi ultimi, falsi pastori, che creano solo disagi e scompiglio, morte e distruzione, Gesù è il vero Pastore, la cui azione nei confronti delle pecore è segno di manifestazione di familiarità ed intimità. Infatti, Egli “entra per la porta”; le chiama individualmente, una per una; e non genericamente, ma ciascuna con il proprio nome. Esse ascoltano, conoscono la sua voce e lo seguono, sicure di approdare ai fertili pascoli. Pertanto, Gesù applica alla sua persona il ruolo di guida e di salvatore che l’Antico Testamento attribuisce solo a Dio. Usa la formula biblica “Io sono”, che evoca le parole di Dio a Mosè dal roveto ardente: ”Io sono Colui che sono”. Parole che danno una misteriosa definizione di Dio. E Gesù, dicendo: ”Io sono la porta delle pecore”, “Io sono il buon Pastore”, dimostra di aver una chiara coscienza di essere e di operare come Dio. Anzi, come Dio, si manifesta pastore del suo popolo. Purtroppo, questo discorso, con la triplice immagine della porta, del pastore e delle pecore, non viene compreso dagli ascoltatori. Per cui Gesù, senza sminuire il contenuto della rivelazione, chiarisce la pastoralità di queste immagini, sottolineando la sua prerogativa messianica: ”In verità, in verità vi dico: “Io sono la porta delle pecore: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà ed uscirà e troverà pascolo”. E se la porta è l’unico ingresso, attraverso cui entriamo ed usciamo, Gesù non solo ne è il custode, ma è la porta stessa. Ci troviamo al cospetto di un ricco simbolismo pastorale, che, calato nelle nostre attuali categorie mentali, dischiude orizzonti di grande apertura del mistero di Cristo, il quale, designandosi unico depositario della salvezza si rivela unico Messia ed unico salvatore dell’umanità. Una finalità salvifica che Gesù realizza passando attraverso la “porta stretta” della croce, sulla quale è stato nello stesso tempo Pastore dell’umanità errante ed agnello sacrificale, immolato per la nostra redenzione. Una missione questa che affida alla Chiesa, suo gregge, la quale non deve mai dimenticare la sua funzione di “porta” attraverso cui passano le pecore ed i pastori. Né deve trascurare il servizio di amore e di donazione verso tutti, soprattutto gli ultimi. Tutto ciò assume un significato particolare in questa domenica, dedicata da Paolo VI° (1963) alla “Giornata mondiale delle vocazioni”. Durante questa giornata ognuno di noi, prendendo coscienza che una Chiesa senza preti è una Chiesa senza vita, è invitato a pregare il Signore, perché la renda viva nella costanza gioiosa dei consacrati, che già sono al suo servizio. E’ invitato a pregare il Signore perché mandi nuovi presbiteri, che sappiano vivere e testimoniare con l’ardore della carità la loro vocazione. Soprattutto, è invitato a pregare il Signore, perché illumini i nostri vescovi nel discernimento delle scelte, onde evitare l’inserimento nelle loro Chiese particolari, di falsi vocazioni, la cui presenza è solo fonte di malessere morale e spirituale. In un mondo già segnato dall’odio, dalla violenza e dall’oppressione, dove però ancora non è spenta la fame di giustizia, di verità e grazia c’è bisogno di autentiche testimonianze sacerdotali, sincere e limpide, le cui manifestazioni di comportamento si intrecciano in una normale linearità di condotta, nella quale ognuno possa leggere la presenza silenziosa, ma reale ed efficace di Cristo.
Perché oggi, piu di ieri, il velo della tristezza resiste e segna il volto di tanti giovani, che rivelano sempre note di insoddisfazione?
Non è forse vero che il loro cuore si è troppo assuefatto ad aprirsi solo quando a bussare, sono le illusioni, le tentazioni dell’apparenza o il miraggio del potere e non la verita di ciò che sono oppure hanno?
Finchè a guidare le speranze, i progetti e gli ideali sono le solite vie del fittizio, che appaiono e scompaiono come le lucciole, in una notte d’ estate, non è facile nascondere la delusione nella visione della loro caduta.
Una delusione che prostra e, nello stesso tempo, riflette sul volto quel vuoto interiore, che dipinge l’ amarezza per quanto non raggiunto.
Non così, invece, quando la porta del cuore si apre alle sollecitazioni della bellezza dei valori o ai richiami dell’ anima, facendosi da essi illuminare: qui, non c’ è spazio, neppure al cospetto della sconfitta, per eventuale tristezza.
Il volto aliterà sempre profumi di serenità e donerà a chiunque quegli effluvi di dolcezza, che sono espressione della presenza nel cuore di qualcosa o di qualcuno, che ha il sapore di una guida invisibile.
Ed è il tuo e il mio Dio.
Continuano le apparizioni di Gesù. Esse sono essenzialmente vicende di fede, incontri ricchi di mistero, ma reali tra il Risorto ed i suoi discepoli. Nell’odierno brano evangelico, il cui racconto è una esclusività di Luca, leggiamo l’itinerario di fede dei due discepoli di Emmaus, i quali passano progressivamente dalla non conoscenza di Gesù alla comprensione del suo mistero di morte e risurrezione; dalla delusione, racchiusa in quel malinconico “sperabamus”, alla visione della fede, e, quindi, alla confessione gioiosa: ”il Signore è veramente risorto”. Un cammino profondo, scandito dall’ascolto della parola di Dio e dal gesto di Gesù dello spezzare il pane. Ma cerchiamo di approfondire la trama di questo incontro, vissuto dai due discepoli sulla strada da Gerusalemme ad Emmaus, con Gesù, il quale, senza farsi conoscere, si fa compagno di viaggio. Con il volto triste, camminano ormai vinti dalla protrazione. Essi hanno già sepolto le speranze messianiche nella tomba del Crocifisso. Discutono tra loro per colmare il vuoto causato da quanto drammaticamente accaduto, ma la sconfitta resta pesante. Allo sconosciuto viandante che finge di ignorare il contenuto della discussione, gli offrono una dettagliata storia, confidando persino l’amarezza per il crollo delle loro speranze: ”noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute”. Parole sofferte, pronunciate come memoria di una fine senza ritorno. Infatti, ormai non c’è più nulla da fare: le speranze di una liberazione di Israele sono fallite per sempre. Tutto è finito sulla croce. A questo punto si aprono orizzonti di nuova luce: l’estraneo viandante si inserisce nella discussione. E, attraverso la spiegazione dei testi della Scrittura, a cominciare “da Mosè e da tutti i profeti”, manifesta la necessità della sofferenza e della morte in croce di Cristo, per “entrare nella gloria” del Padre. Pertanto, ciò che ad essi appariva come il fallimento di un progetto, in realtà è l’inizio della gloria: ”Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. Così, sulla via per Emmaus, Gesù, in prima persona, celebra la liturgia della Parola, introducendo i due discepoli nella comprensione del suo mistero, fino a renderli partecipi della Sua Pasqua di salvezza. Ebbene, l’insegnamento della Scrittura, con il quale Gesù mostra la stretta colleganza tra le profezie messianiche dell’Antico Testamento e il loro compimento nel Nuovo, è il primo segno che offre ai due discepoli, per farsi riconoscere. Il secondo è un segno eucaristico. Certamente la cena, a cui Gesù è invitato, riveste i requisiti della normalità quotidiana. Però, non si può prescindere dalla sua prospettiva eucaristica, alla quale il testo allude, quando riporta i gesti compiuti dall’insolito pellegrino: ”quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”. C’è in questa espressione un chiaro rimando all’istituzione dell’Eucaristia. Tanto è vero che proprio dopo la pronuncia di queste parole, essi lo riconoscono: ”ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”, dove “riconoscere” in senso biblico, è il verbo della fede. Ma la scena non si chiude qui, con il riconoscimento del Risorto. Essi, con il cuore traboccante di gioia, ritornano subito a Gerusalemme, per testimoniare agli undici quanto accaduto e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane. Su questa traiettoria di gioia e di testimonianza si muovono le altre due letture bibliche. Nella prima, tratta dagli Atti degli Apostoli, le parole dell’apostolo Pietro racchiudono la ricchezza della nostra fede, fondata su Cristo, messo a morte nella carne e risorto nella gloria per la nostra salvezza. Un “disegno questo già prestabilito” da Dio; per cui, anche se apparso agli occhi degli uomini come un fallimento, uno smacco; in realtà esso rivela l’esaltazione dell’onnipotenza e dell’amore del Padre verso l’umanità. Anche la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di San Pietro, parla di questo misterioso disegno di Dio riguardo a Cristo: ”Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi”. E noi siamo i destinatari di questo disegno di amore che la Scrittura ci svela, facendoci sentire il bisogno di conoscerlo e meditarlo. Ebbene, il racconto dell’incontro pasquale di Cristo risorto con i due discepoli di Emmaus, si configura come un episodio molto intenso, ritmato simbolicamente dalla complementarietà di due aspetti essenziali: ascolto della parola di Dio e lo spezzamento del pane. Gesù risorto, facendosi pellegrino con i pellegrini, dopo aver donato la parola di Dio, porta l’Eucaristia dal Cenacolo di Gerusalemme sulla strada della vita di ognuno di noi. Si fa presente nella nostra storia personale e comunitaria. Passa continuamente, bussando alle porte dei nostri cuori. Noi non siamo mai soli. Cammina a fianco a noi, con una presenza misteriosa, ma reale. E noi Lo possiamo riconoscere e testimoniare come il Dio della vita, a condizione però che la sua parola e il pane spezzato dell’Eucaristia riscaldino i nostri cuori e rendono gli occhi dello spirito capaci di scoprirLo vivo nel lamento del povero, nel grido di chi soffre, nello sguardo degli ultimi.
Il mio vuole essere un semplice pensiero di affetto e gratitudine per quanto appreso e ricevuto nel tempo pastorale,vissuto alla sua ombra. Anche se i reciproci impegni, che vedono entrambi coinvolti nell’espletamento di tante responsabilità parrocchiali e diocesane, hanno rallentato la nostra frequentazione, non posso non ricordare i momenti belli dei miei primi anni di sacerdozio, trascorsi nella sua Parrocchia. Proprio qui ho avuto modo di conoscere il suo stile di uomo e di sacerdote, che certamente, a primo impatto, vestiva da burbero, ma nel dialogo rivelava un cuore aperto a raccogliere ogni esigenza ed ogni fragilità. I suoi 50 anni di Parroco sono stati un intarsio di vivace umanità, donata sempre con il cuore ai suoi fedeli e di effluvio dello spirito, sempre presente là dove c’era il bisogno. La sua vita nella Città di Casapulla è un pezzo serio e fecondo di storia, non facile a dimenticare, in quanto ha saputo impregnare della sua presenza tutte le iniziative e religiose e civili, lasciando impronte di sequela, che La nobilitano e, nonostante tutto, La rendono ancora primo attore della realtà locale. Nessuno può sottacere la vigilanza, sempre costante, nella cura della sua Chiesa, che ha reso una delle più belle all’interno della Diocesi di Capua. Personalmente sono contento di essere stato al suo seguito nei miei primi anni di sacerdozio e, senza nulla rimpiangere, La ringrazio con tutto il cuore, consapevole che questa manifestazione di stima e di affetto,formulata nella circostanza del suo 50°, La renderà sinceramente felice. Auguri
Oggi 29 Aprile 2014 hanno celebrato il 25 di matrimonio nella Chiesa di San Luca Evangelista in Casapulla.
Un momento di profonda gioia, facilmente leggibile sul volto di entrambi, soprattutto quando hanno rinnovato il loro si di amore e di reciproca donazione, seguito da un caloroso applauso da parte di tutta l’assemblea.
Ciò che ha reso ancora più entusiasmante il contesto, fino a farne un vero quadretto familiare, e’ stata la presenza dei tre figli : Alessandra,Francesca e francesco, che, con il loro sorriso, hanno ravvivato la bellezza e la serenità coniugale dei loro genitori.
Gli auguri hanno avuto il sapore di una vera e propria preghiera al Signore di benedizione e di protezione.
Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, sono due Papi che hanno cambiato la storia: l’ uno con la sua umiltà, l’altro con il suo coraggio.
Entrambi sono espressione di un’unica santita, quella che parte dalla conteplazione di Dio, illuminata dallo Spirito Santo, e discende sul versante delle azioni quotidiane.
Essi stanno bene insieme, sia per il nome ” Giovanni “, il precursore che prepara la via al Signore, sia per il contenuto del Pontificato.
Giovanni XXIII fu, infatti, il precursore di una vera primavera della Chiesa cattolica, che aprì con la convocazione di un Concilio in un momento in cui l’umanità “era alla svolta di un’ era nuova e compiti di una gravita ed ampiezza immensa attendevano la Chiesa”.
In questo contesto storico, segnato dal progresso della tecnica e della scienza, il Papa seppe porre in dialogo con il mondo moderno le energie del Vangelo, convinto che, che avendo il mondo bisogno di Cristo, era la Chiesa a doverglielo portare, con un linguaggio ed un atteggiamento non distanti, ma simpatetici con il mondo stesso.
Anche Giovanni Paolo II, oltre ad essere precursore, fu anche banditore del Vangelo, avendo preso in aggiunta il nome di Paolo.
E come Paolo fu instancabile nel portare sempre ed ovunque il Cristo.
Ma Essi stanno bene insieme, anche perché entrambi hanno saputo realizzare, in modo completo, le tre virtù teologali: fede, speranza e carità,
vivendole ed insegnandole con la testimonianza della loro vita.
Ed oggi noi li veneriamo Santi e la loro santità la sentiamo vicino ai nostri cuori, avendoli molti di noi visti ed anche conosciuti di persona come colui che scrive.
La liturgia di questa seconda domenica di Pasqua ci invita a rinnovare la nostra professione di fede in Cristo risorto. Con oggi inizia un arco di sette settimane pasquali, durante le quali Gesù, sempre per sua iniziativa, appare e scompare inaspettatamente, anche a porte chiuse. Le apparizioni, in tutto una decina, sono la sorgente della nostra fede, della nostra speranza. Proclamano, in maniera concreta ed inequivocabile, che sulla croce non ha trionfato la morte, ma la vita; non le tenebre, ma la luce sfolgorante del Risorto.
La pagina del Vangelo odierno racconta due apparizioni di Gesù Risorto ai discepoli, di cui una provocata dall’incredulità di Tommaso. Entrambe avvengono nel Cenacolo, dove i discepoli, avvolti dal buio della notte e del cuore, si trovano riuniti insieme “la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato”, durante il quale gli Ebrei avevano celebrato la loro Pasqua, la pasqua dell’Antica Alleanza. Con il Cristo Risorto, che ora appare in mezzo al gruppo, comincia “in quello stesso giorno – il primo dopo il sabato – la Pasqua della Nuova Alleanza, quella definitiva per la nostra salvezza. Perciò, il giorno della Risurrezione è divenuto subito il “giorno del Signore”, la domenica cristiana, tutta incentrata sull’Eucaristia, memoriale della Pasqua di Gesù. Ebbene, in tutte le apparizioni Gesù non è riconosciuto subito: il riconoscimento si verifica in seguito ad una parola, ad un segno, a qualche indizio della sua identità. Questo dimostra che Gesù, dopo la risurrezione, ha sì un corpo reale, per cui non è un fantasma, ma le modalità del suo nuovo modo di esistere sono diverse. Perciò, può entrare nel cenacolo anche a “porte chiuse”. In altre parole, quello di Gesù è un corpo glorioso, spirituale, capace di attraversare anche le pareti. Ma l’Evangelista Giovanni non cerca soltanto di evidenziare che il Cristo Risorto non è diverso dal Gesù crocifisso: ”mostrò loro le mani ed il costato”; ma vuole essenzialmente dimostrare che il Risorto è veramente il “Signore della vita”. Cioè, quel Gesù che sembrava definitivamente sconfitto dalla morte, in realtà è il Kyrios, il Signore della morte e della vita, dal quale scaturiscono la pace e lo Spirito Santo, sorgente e principio della riconciliazione. Anzi, in questa prima apparizione, l’incontro con il Risorto è contraddistinto proprio dall’offerta di questo dono straordinario: la remissione dei peccati, con cui Gesù, perdonando, dimostra la Sua divinità.
Nella seconda apparizione, che leggiamo nella seconda parte del brano evangelico, rileviamo la risposta di amore di Gesù alla sfida di Tommaso, il quale, assente nella precedente apparizione, alla notizia degli amici:” abbiamo visto il Signore”, non riuscendo a credere, esige, come previa condizione, una prova, una verifica visibile: ”Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodo e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Quella di Tommaso è la situazione di ogni uomo. Anzi, in ognuno di noi c’è un Tommaso, spesso in difficoltà a credere, pronto a confondere la fede con l’esigenza di un dato scientifico. Tommaso è il simbolo di tuti noi che, pur ponendoci domande su Dio e sul mistero di Cristo, non abbiamo il coraggio di vivere il rischio della fede. Abbiamo paura di “scommettere” su ciò che “non vediamo”. Ecco perché Gesù a Tommaso e a noi, che cerchiamo ragioni, prove e certezze assolute per credere ed accettare Dio nella nostra vita, rivolge un amorevole rimprovero: ”Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno!”. Allora non la pretesa di segni o di prove concrete dobbiamo domandare a Dio per credere, ma porci nelle Sue mani, abbracciando la croce della sequela, in cammino sì nella notte dei dubbi, ma pellegrini attenti verso la luce, verso la voce di Dio che dice a ciascuno di noi, singolarmente: ”sei e ti stringerò tra le mie braccia”. Ebbene, solo aderendo a Dio, manifestatosi visibilmente e storicamente in Cristo, morto e risorto, il credere diventa visione. Una visione che ci rende “beati” già qui, in questo frattempo che viviamo tra il già ed il non ancora, ove, pur “non avendo visto”, ci affidiamo a Cristo con incondizionata adesione, confessando, come Tommaso, “mio Signore e mio Dio”. E questa è una grande esperienza di incontro con Cristo risorto, che il primo nucleo della Chiesa dell’inizio viveva come un prodigio sempre attuale, ritrovandosi insieme nel “giorno del Signore”. A tale proposito, S. Luca nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, descrive la novità di vita dei primi cristiani, i quali “erano assidui – dice – nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”. Vivevano davvero una vita da “risorti”, cittadini di un nuovo mondo, vissuto in perfetta comunione e condivisione. E tutti erano contagiati dall’esperienza della risurrezione, non per la concreta visione di Cristo, ma per la testimonianza di vita di coloro che si dicevano discepoli del Risorto. Una mediazione testimoniale che purtroppo oggi manca, essendo un po’ tutti più sedotti dal ruolo di maestri che di testimoni; più dalla volontà di essere profeti di parole che autentiche voci profetiche, capaci di garantire con la vita di uomini nuovi e diversi, che Cristo è “davvero risuscitato dai morti”. Pertanto, solo quando la nostra fede diventerà contagiosa e saprà comunicarsi, noi saremo motivo di sorpresa e di ammirazione negli altri, i quali, domandandosi il “perché” di questa diversità di comportamento, potranno restare anch’essi presi dall’esperienza della risurrezione, coinvolgendosi nella scoperta di Cristo, quale “Signore e Dio”, fonte di infinita misericordia.
30 anni di matrimonio vissuti nella reciprocità di un grande amore.
E’ la storia di Gabriele e Paola, un quadro di bellezza coniugale, che testimonia la vivacità della vera famiglia cristiana,
di cui l’ attuale società ha tanto bisogno, per consolidare se stessa nella prospettiva dei valori autentici.
Ciò che rende ancora più bello questo quadro è la visione di Gioia, Marilena e Donato, i tre figli che fanno da corona al loro amore
e completano la testimonianza di ciò che concreta il tessuto di una vera società : una famiglia sana per una società sana.
Gesù è veramente risorto. Perciò, l’ultima parola della sua vicenda terrena non è la morte, ma la vita. Al di là della Croce non c’è il sepolcro, ma il vivente, Gesù, il Risorto. Quell’uomo che vedono morire sulla croce, è lo stesso uomo che ora si manifesta come Signore della vita. La morte, che pure segna il limite invalicabile contro cui vengono a cadere tensioni e aspettative umane, viene per la prima volta sconfitta; ed in questa vittoria siamo coinvolti tutti. Infatti, noi tutti abbiamo vinto in Cristo la morte; ed il nostro è un destino di eternità: noi siamo eterni, non moriremo mai. Del resto, se non si fosse verificata la Risurrezione, oggi l’ultima parola sarebbe spettata al Calvario; ed ogni speranza sarebbe rimasta priva di fondamento. Il fatto, invece, che tutto sia avvenuto secondo le predizioni, fa di questo evento un punto di riferimento veramente universale e sempre attuale. Perciò,il cristianesimo non è una dottrina in disuso,non è un album di ricordi o di memorie passate, non è la storia di un uomo morto. Il Cristianesimo è una persona viva che continua a proclamare la verità sempre e dovunque. E la verità non è qualcosa che si possiede, ma è Qualcuno che ci possiede: è Gesù, l’umile volto dell’uomo del Venerdì Santo, che è il Risorto della domenica di Pasqua. Lasciarsi possedere da questa Verità è l’unica strada per rendere vera la nostra umanità, per far crescere in essa la luce, la speranza, l’amore; per salvare l’uomo dal degrado, dalla paura del futuro, dalla banalizzazione della vita, dalla chiusura a Dio. Solo amando questo umile volto in cammino sulla via del Golgota, noi riusciamo a capire chi giace sotto il peso dell’ingiustizia, dell’angoscia, della solitudine. Solo fissando il nostro sguardo sul volto sofferente ed agonizzante di Gesù, noi possiamo comprendere la drammaticità di tanti avvenimenti della storia. Solo contemplando il Crocifisso, noi possiamo incontrare il Risorto, che è e sarà sempre il Cristo dell’amore vero, della vita che palpita ovunque, della serenità che conquista; il Cristo della pace che si proclama, della giustizia che si vive, della verità che si impone.