Nasce l’amore
Solo chi si ama,desidera conoscersi bene si cerca ovunque,anche nelle cose deboli Non vola in alto per vedersi tra le nubi ma preferisce stare con chi gli è vicino Soltanto nell’altro eleva la sua umanità e vive il silenzio di […]
nel mondo senza speranza
ove tutto si mostra cupo
tu mai gusterai la magia
che ogni cosa vive in sé
Tutto ,anche chi ti parla
t’ appare uguale e noioso
come la noia che è in te
Invece, se dalla tomba tu
esci e decidi di entrare
di nuovo nella vita, dove
ogn’attimo è un miracolo
puoi volare pure in alto
sulle ali della speranza
che ti farà rivivere ciò
che il mondo ha sbiadito
E su queste ali sentirai
il profumo del nuovo che
rende tutto diverso e tu
puoi meravigliarti anche
di ciò che sembra futile
Anzi, in alto vedrai cose
e persone non più noiose
ma come la prima volta e
ogni giorno con un abito
diverso aprirsi a domani
A differenza di altri che ti osannano, persino per ciò che non hai,
io in silenzio ti guardo e ti scopro un povero uomo.
Affannato solo per le cose che ti fanno da aureola,
attento alla misura di ogni gesto e parola, sembri un recipiente vuoto,
che cerchi di riempire con dosi costanti di promesse vuote.
Ed anche se in apparenza ti senti ricco, pago del tuo castello di carta,
nella realtà non hai nulla.
Anzi, sei l’esatto contrario della verità: una maschera di rughe spinose.
La sera quando tutto tace
finti echi riportano voci
familiari al cuore,parole
sibilate accendono fuochi
che bruciano la corteccia
del mistero e creano luce
è l’ora in cui senza fare
mi riposseggo e vedo cose
persone e tutto ciò che è
intorno a me diversamente
quasi uno specchio lucido
dove ogni sguardo,persino
il mio,manifesta un’anima
che rivive l’amore di Dio
Lo sfondo sotteso al brano evangelico di Luca è quello della sinagoga di Nazaret, ove Gesù attribuisce alla sua persona il passo del profeta Isaia, quello cioè, di “annunziare ai poveri un lieto messaggio, proclamare ai prigionieri la liberazione ed ai ciechi la vista, rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore”. In altre parole, Gesù, rivendica per sé una missione profetica, una missione di salvezza e di liberazione. Egli proclama di essere l’inviato di Dio, il salvatore dell’umanità. Affermazioni provocatorie, pronunciate davanti ad un uditorio, che, benché stupito “delle parole di grazia che uscivano dalla bocca di Gesù”, è fortemente prevenuto nei suoi riguardi:”Non è Costui il Figlio di Giuseppe?”. Un interrogativo carico di ostilità, che nasce nella mente dei presenti, i quali, chiusi ad ogni tentativo di scalfire il mistero, di andare, cioè, al di là di ciò che vedono, non riescono a conciliare le umili origini di Gesù con la sua dichiarata pretesa di essere colui nel quale “oggi si è adempiuta la Scrittura”.
Pertanto, non solo non sanno cogliere il mistero, che nell’agire di Gesù certamente si rivela; non solo ostentano indisponibilità a credere, ma ancora una volta cercano nella straordinarietà un dio a proprio piacimento:”quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, – dicono – nella tua patria!”.
C’è in essi una sorta di desiderio dello straordinario, del miracolo visto come manifestazione di stupore e non come motivo per credere e convertirsi. A tale concezione magica e taumaturgica Gesù si oppone senza mezzi termini: per Lui i miracoli non sono strumenti di successo o gesti propagandistici, ma espressione di amore, che compie liberamente dove vuole e per chi vuole. Del resto, non c’è da meravigliarsi, soprattutto se si consideri che Dio, a causa della incredulità dei suoi, sceglie di compiere i prodigi, già nell’Antico Testamento, al di fuori della stessa Palestina. Così il profeta Elia si preoccupò di una vedova della regione fenicia, durante una terribile carestia, che aveva colpito anche la terra di Israele; ed il profeta Eliseo guarì dalla lebbra il generale Siro Naaman, quando in Israele molti ne erano afflitti. Per i cittadini di Nazaret, quello di Gesù è un linguaggio pesante. Per cui frustati ed incapaci di aprirsi alla fede ed alle sorprese divine; vogliosi di miracoli per loro uso e prestigio, in contrasto con i disegni di amore universale di Dio, gli diventano ostili, fino al tentativo di ucciderlo:”pieni di sdegno, si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte……, per gettarlo giù dal precipizio”. Purtroppo, quando la religione la si interpreta come un possesso personale e Dio come una realtà disponibile ai propri interessi, non c’è spazio per aprirsi alle esigenze sempre nuove ed imprevedibili di Dio. La vicenda di Nazaret, che riflette quella del profeta Geremia, narrata nella prima lettura, è un atto di accusa contro quelle forme di religiosità, a cui spesso ci attacchiamo, ma che appena vanno in crisi, rivelano il vero volto, quello della incredulità e dell’egoismo. Ma la parola di Dio non si spegne: dilata ed allarga i confini, per cui nuove vedove e nuovi lebbrosi alzano il capo ed aspettano lungo le strade il Signore che passa. A questo punto è opportuno domandarsi: noi ci lasciamo provocare dalle parole di Gesù, facendoci trasformare, o gli poniamo ipocrite condizioni come i cittadini di Nazaret? Parliamo contando sulla forza della verità e sull’aiuto che viene da Dio oppure restiamo prigionieri della nostra apparente religiosità?”.
Oggi più che mai, dobbiamo avere la forza profetica dello Spirito, se vogliamo riaffermare la modernità e la basilarità dei valori cristiani. Fermo restando che la testimonianza più forte è quella dell’amore, come ci ricorda San Paolo nella seconda lettura, dove, con parole sublimi, dice:”Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”. E poi aggiunge:”Tre cose rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte, più grande è la carità”.
La liturgia della Parola di questa domenica è dominata da due scene, molto simili tra loro, che raccordano la prima e la terza lettura.
La prima scena, ripresa dal libro di Neemia, ci presenta una vera e propria assemblea liturgica, in mezzo alla quale il sacerdote Esdra legge e proclama il “libro della legge di Mosè”. E’ una lettura pubblica e solenne fatta in presenza e con la partecipazione di tutto il popolo, che si alza in piedi, solleva le mani, si inginocchia in adorazione, ed infine risponde con la formula, divenuta classica anche nella liturgia cristiana:”Amen, Amen”. Questa proclamazione della Parola non si risolve in una semplice lettura di brani, presi alla rinfusa. Essa esige brani inizialmente selezionati, il cui senso deve essere spiegato, per “trarre fuori” da essi tutta la ricchezza che ogni parola della Bibbia contiene. Nello stesso tempo, lettura e spiegazione devono veicolare l’assemblea alla comprensione della Parola: una comprensione non semplicemente culturale, ma gustata ed alimentata dall’intelligenza e dal cuore. Da questa triplice azione scaturiscono due atteggiamenti: il primo atteggiamento è caratterizzato dalle lacrime di conversione, che affiorano agli occhi di chi ascolta, espresse non solo dal senso di pentimento e di dolore:”Tutto il popolo piangeva mentre ascoltava”, ma anche dall’esigenza di carità verso i bisognosi; il secondo dalla fiducia che sboccia, perché l’ultima parola di Dio non è di condanna, ma è promessa di perdono. Ecco perché il governatore Neemia, Esdra e gli altri leviti intervengono per ricordare a chi piange che quello non deve essere un giorno di tristezza, ma di gioia:”Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci……., non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la nostra forza”.
Ci troviamo in presenza di un’assemblea liturgica, trasformata dall’annuncio e dall’ascolto della Parola: una trasformazione che dovrebbe verificarsi anche per le nostre assemblee domenicali. Cosa che molto spesso non accade sia perché le nostre assemblee avvertono più il fascino delle parole che della Parola di Dio, sia perché i ministri della Parola non hanno una fede autentica nella potenza trasformante della Parola proclamata; sia perché gli ascoltatori più che partecipare e vivere il mistero della Parola annunciata, preferiscono rimanere passivamente nel ruolo di semplici spettatori.
Ebbene, se la prima scena ha come sfondo Gerusalemme, ricostruita dopo l’esilio babilonese, la seconda si svolge nella sinagoga di Nazaret, dove Gesù, avvalendosi di un diritto riconosciuto ad ogni ebreo maschio, quello cioè della lettura di un brano della Scrittura, “si alzò a leggere”. E legge un noto brano di Isaia:”Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione ed ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia”. Questo annunzio di speranza e di liberazione certamente dovette entusiasmare tutta l’assemblea. Ma l’entusiasmo si trasforma in ribellione, quando Gesù, spiegando il testo, usa una frase strana e pesante come una pietra:”Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi”. Una affermazione di autenticità divina che ci indica come tutta la speranza annunziata dal profeta Isaia è diventata realtà “oggi”, proprio in Gesù di Nazaret. In questa scena l’evangelista Luca inquadra il ritratto più idoneo di Gesù, anticipando in maniera sintetica, il programma della sua missione liberatrice: libertà dalla cecità fisica e spirituale, libertà dalla povertà e dalla schiavitù, libertà dal peccato. E’ la liberazione integrale dell’uomo, che si ottiene soltanto amando e perdonando, con la tolleranza ed il rispetto, la fratellanza e la solidarietà. A queste due scene, l’una del Vecchio e l’altra del Nuovo Testamento, possiamo sovrapporre il contesto delle nostre assemblee domenicali, nelle quali Cristo ancora entra con la sua parola, e per le quali speriamo che questa Parola, come allora, provochi negli uditori le lacrime della conversione e la gioia della carità. Vorrei concludere con una frase di Simeone, il Giusto:”il mondo si fonda su tre cose: la Bibbia, la preghiera e gli atti ispirati dalla giustizia e dall’amore”.
Vivere per molti non è più una sorpresa.
È solo una corsa senza fermata,
neppure per prendere fiato.
Un ritmo frenetico,
che respinge ogni istante di pensiero.
Il tempo di gustare qualcosa di diverso,
la voglia di aprirsi alla novità
cedono alla smania della velocità.
E così lasciano indietro la propria anima,
che ha bisogno di silenzio e di serenità,
per cogliere le sorprese dell’essenziale:
il mondo, dove il rumore è straniero
e il mistero si veste di luce.
Ciò che è fluido non può darti qualcosa di veramente solido.
Può spingere ad istanti di piacere, ma ti lascia troppi detriti.
E’ come vedere una trottola, che gira su se stessa, finchè non cade.
Non così, se cerchi oltre le cose, nella bellezza dell’ anima
o sulla strada del dovere, dove puoi sempre coglierne il profumo.
La liturgia della Parola di questa domenica è dominata da letture bibliche che, a prima impressione sembrano slegate tra di loro. Invece, in approfondimento, evidenziano l’amore grande, gioioso e personale che lega inizialmente Dio alle sue creature. Un amore che fa da sfondo al racconto delle nozze di Cana, la cui presentazione, attraverso un linguaggio simbolico ed allusivo, certamente vuole significare la carica affettiva di Gesù verso l’umanità.
Ebbene, la prima lettura, ripresa dal profeta Isaia, descrive, con immagini nuziali, i rapporti di Dio con Gerusalemme; con la seconda presa da S. Paolo, ci vengono presentati i carismi, cioè quei doni che Dio, mediante il suo Spirito, concede a tutti i battezzati, non per goderli egoisticamente, ma per metterli a disposizione della comunità cristiana. Come esattamente fa Maria, che usa la grazia della sua divina maternità, per esortare Gesù ad eliminare il disagio agli sposi venutosi a creare per la mancanza di vino. Il brano evangelico ci presenta il miracolo delle nozze di Cana, il quale, attraverso la semplicità del racconto pieno di mistero, si configura carico di rimandi simbolici e, quindi, ricco di significato. Sì, perché l’Evangelista Giovanni non si ferma alla descrizione dell’azione prodigiosa che Gesù compie; per Lui il miracolo è un segno che rivela qualcosa del mistero di Cristo, rivela la sua gloria, e, nello stesso tempo, genera la fede.
Esaminiamo, pertanto, alcuni simboli che esprimono il senso ultimo e profondo della narrazione. Il primo è il banchetto nuziale durante il quale si verifica il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino. La presenza di Gesù a tale banchetto non esprime semplicemente la sua volontà di santificare le nozze e l’amore umano, che fondano la famiglia; ma è un segno più profondo, che rivela il suo amore, la sua capacità di donarsi e sacrificarsi per l’umanità. Ed è proprio su questa linea che possiamo comprendere la risposta di Gesù alla madre: ”Non è ancora giunta la mia ora”, dove il termine “ora” nel Vangelo di Giovanni, è l’ora della Croce, durante la quale Gesù manifesta il massimo di amore per noi. Non però un’ora chiusa nella sofferenza è questa, ma aperta alla gloria pasquale, in cui Gesù esprime in pienezza il suo mistero. Perciò, anche se rifiuta alla madre il miracolo a sé stante, in quanto non è ancora giunta l’ora, Gesù compie un segno che rivela l’ora, cioè rivela se stesso, quale sposo che dona il vino della gioia e della salvezza.
E Maria, non solo comprende il senso vero della risposta di Gesù, ma dice anche ai servi:”Fate quello che vi dirà”. A questo punto, sei giare di pietra, contenenti ciascuna due o tre barili di acqua, si trasformano in vino, talmente buono da suscitare lo stupore del “maestro di tavola”, il quale dice allo sposo:”Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”. Non dimentichiamo che il banchetto nuziale, l’abbondanza dei frutti della terra e del vino sono grandi simboli messianici. E’ chiaro, quindi, che Giovanni, attraverso tutta la trama del racconto, ci vuole comunicare che con Cristo sono venuti i tempi nuovi: Lui è il vino “buono” ed “ultimo”, è il dono perfetto del Padre.
Naturalmente, il “nuovo” ed il “meglio” piace a coloro che hanno il gusto fino come il maestro di tavola; piace a coloro che sanno aprirsi alle meraviglie della novità in Cristo.
Come si constata, ogni particolare del racconto è centrato sul mistero di Cristo; ma Maria è accanto a Lui, non con una presenza di contorno, ma in maniera determinante ed attiva, con la sua fede limpida e totale. Infatti, è Lei che dicendo:”non hanno più vino”, provoca l’intervento di Gesù. Certo, quello di Maria non è una fede perfetta. Pur avendo accolto il mistero del Figlio, non conosce ancora la sua Ora. Ed è proprio questa mancata conoscenza che spiega il dissenso di Gesù:”che ho da fare con te, donna?”.
Il fatto poi che Gesù si rivolge alla madre, chiamandola “donna”, ci rimanda alla scena della morte di croce, quando le dice:”Donna, ecco il tuo Figlio”. Ed è questa l’ora, durante la quale Gesù, presente la Madre sul Calvario, celebrerà le vere nozze d’amore, offrendo al mondo, quale banchetto, il suo corpo ed il suo sangue per la salvezza di tutti. C’è, pertanto, nel racconto del miracolo delle nozze di Cana una notevole ricchezza di idee. Speriamo solo che possa accadere in noi e per noi ciò che avvenne per i discepoli di Gesù:”Essi credettero in Lui”.