Categoria: Generale

Attore di indifferenza

Mentre sulla spiaggia ognuno si lascia

vezzeggiare dal sole e le onde giocano

baciandosi o scontrandosi per la gioia

di chi nel risucchio prende freschezza

mentre grida inconsulte si intrecciano

con suoni non sempre graditi all’udito

e tanti sciorinano l’estetica bellezza

con stime appese al ridicolo o al vero

si vede galleggiare una sagoma di uomo

che si fa sempre più uomo man mano che

le onde,cullandolo,lo depongono a riva

con il viso senza rughe volto al cielo

Neanche la sua giovinezza genera pietà

o un tantino di umana curiosità,ognuno

gioca rincorre l’amico senza sbirciare

quel fagotto di carne non più fastidio

Tanto sa dispensare l’uomo di oggi,che

forse non avendo più nulla nel cuore e

nell’anima,si fa attore d’indifferenza

bruciando le lacrime che la morte dona

XXII DOMENICA T. O.

Nelle letture bibliche di questa domenica troviamo una continuità diretta con quelle di domenica scorsa. Lì abbiamo celebrato la messianicità trascendente di Cristo, figlio del Dio vivente; qui scopriamo, attraverso le stesse parole di Gesù, che tipo di Messia Egli è. Non il Messia del trionfalismo temporale, tanto atteso, destinato alla liberazione di Israele, ma il Messia della Croce. Lì abbiamo meditato la grande professione di fede di Pietro, ispirato dall’Alto, nella divinità di Cristo e la sua costituzione quale “roccia” di fondamento per la Chiesa; qui vediamo la brusca reazione di Gesù che ravvisa “una pietra di scandalo” in Pietro, che vorrebbe impedirgli di percorrere la via della passione. Ebbene, il brano si compone di due parti, le quali, anche se ben distinte, sono collegate tra loro da un unico filo conduttore: la Croce, necessaria per Cristo ed i discepoli ad entrare nella gloria del Padre.
Nella prima parte, Gesù mostra le linee della sua messianicità, spiega, cioè, il contenuto vero del suo essere Messia. Nulla compie al di fuori della volontà del Padre, al quale è sempre obbediente, anche se la via da percorrere è quella della Croce. Ed è proprio questa prefigurazione tragica che Gesù fa della sua vita, che Pietro respinge, cercando di ostacolargli la sua andata a Gerusalemme, dove si sarebbe consumato il martirio. Purtroppo, Pietro, pur non rinnegando la propria fede in Cristo, ancora non pensa secondo Dio, ma secondo i propri schemi umani, sospesi alla mentalità del tempo, in attesa di un messianismo politico, senza alcun riferimento alla sofferenza, alla sconfitta. Ed è questo modo di pensare, incapace di cogliere il senso delle cose di Dio, che Gesù stigmatizza aspramente, giungendo a qualificare Pietro come strumento di Satana: ”Lungi da me, Satana! – gli dice – tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”. Pertanto, nella vita di Gesù la Croce non è un incidente di percorso, non previsto ed improvviso, ma un disegno prestabilito del Padre, verso il quale Egli va incontro con consapevolezza, quale Servo sofferente e Messia della Croce, obbediente “fino alla morte ed alla morte in Croce”.
Nella seconda parte del passo evangelico, constatiamo che la Croce nella volontà di Dio non è prevista solo per Gesù, ma anche per coloro che si pongono alla Sua sequela. Gesù chiaramente rivela la necessità per ogni discepolo di sentirsi coinvolto nella sua sofferenza. Anzi, non è vero cristiano chi non continua in sé la passione di Cristo. A tale proposito, Gesù detta le condizioni per essere cristiani: rinnegare se stessi e prendere la propria croce. E come Lui nella passione e morte si è annientato, svuotato; si è donato totalmente agli altri per ritrovarsi nella gloria della risurrezione, così il cristiano è invitato a fare altrettanto: deve perdersi per vivere; deve rinunciare all’avere per essere; deve amare Cristo al di sopra di tutto, se vuole vivere sempre e per sempre in Dio. Il cristiano non ha davanti a sé una via diversa da quella di Cristo. Solo assimilato liberamente alla Sua passione, può un giorno partecipare della gioia della risurrezione. Ebbene, le parole che troviamo in questa seconda parte del brano evangelico sono veramente paradossali. Ci mettono in crisi, richiamando le nostre responsabilità di fronte agli orizzonti di eternità. Smascherano le false sicurezze riposte nella cultura del benessere e del potere, ponendoci davanti al giudizio finale sulla vita, quando il Figlio dell’uomo renderà a ciascuno secondo le sue azioni: ”Quale vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?”. Domande brucianti che penetrano nella profondità dell’anima, aprendo lo scenario della fugacità della vita e della fragilità delle cose, con il rischio incalcolabile di scelte sbagliate che possono gettarci nella perdizione. Certamente la via percorsa da Cristo e da Lui a noi indicata non è facile. La porta per la quale siamo chiamati a passare non è larga, ma stretta. E’ un intarsio di sofferenze e di rinunce, che sperimentiamo quotidianamente, fino a provare amarezza per un Dio che prima seduce e poi sembra abbandonarci a noi stessi. Emblematica è la confessione del profeta Geremia nella prima lettura, dove l’amore di Dio viene presentato come un atto di seduzione:” Mi hai sedotto, o Signore – dice il Profeta – ed io mi sono lasciato sedurre”. La consapevolezza di essere amato e di aver corrisposto al suo amore esigente, non lo libera però dal tormento che le continue rinunce e sofferenze gli causano. Anzi, lo affliggono sino al desiderio di ribellarsi e di non essere più un suo portavoce. Ma non lo fa, perché avverte che la parola di Dio, come “fuoco ardente” lo penetra, lo avvinghia nel cuore e nella mente, tanto da dire: ”mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”. Quella di Geremia è l’esperienza di una vera crocifissione, che prefigura la sofferenza di Cristo. E come questa consiste nella coerenza di spendersi e perdersi per Dio, sicuro di trovarsi nella gioia del Suo amore. In un mondo dove l’unica misura di valutazione di persone e cose è lo spessore del piacere e della gioia a basso costo, è difficile recepire il messaggio della croce e della rinuncia. Però, se ancora resiste un pensiero di eternità in noi, se ancora Cristo è Qualcuno da amare e da seguire, non possiamo disimpegnarci dalle linee di comportamento da Lui tracciate. Pertanto, svuotarci per riempirci di amore verso Dio ed il prossimo, vivendo lo spirito delle Beatitudini, è e resta la condizione fondamentale per condividere la persona di Cristo nella nostra vita.

Un canarino Ti dice grazie

 

 

Nessuno alza gli occhi al cielo per dire grazie.

Tutti si perdono nelle tue delizie,  gustano il sapore del mare e la brezza leggera dei monti,  corrono e si divertono,  beandosi di quanto hai creato,  ma nulla fanno per aprire lo scrigno dell’ anima e slanciarsi in alto,  per cogliere il tuo amore di Padre.

Tutto é visto e sentito come dovuto,  avvolto nel gioco di tante causalità,  che chiudono la porta alla verità,  che,  se bussata,  aprirebbe arcobaleni nuovi, dove ognuno potrebbe incamminarsi e scoprire la fonte di tutte le meraviglie.

Così,  mentre osservo dal balcone un brancolare di corpi in acqua e di altri curvi,  arrampicarsi in montagna,  vedo in una gabbia un canarino,  che,  a testa alta e senza mai fermarsi,  intona una sinfonia di suoni,  che sembra supplire il grazie che l’ uomo non sa più  dirTi.

A Papa Francesco

Voglio solo toccarti e dirti a voce alta

“ esisto ” pure io in questo mondo fatto

di noia,ove ognuno pedala in modo uguale

i poveri restano sempre al palo, i ricchi

continuano a vivere di tediosi privilegi

i manovali anonimi della chiesa lavorano

senza tregua, i porporati ti sono accanto

e a differenza dei senza nomi ti tendono

le mani che non conoscono il vero sudore

Ti voglio toccare non per chiedere onori

non desidero scorrere nella tua leggenda

che si eleva come arcobaleno di vittoria

le cui grida echeggiano in cielo,ma solo

per dirti che come me esistono altri,che

liberi da patologie di carriera, brillano

per la Parola che annunciano,per l’amore

che donano,per la gioia d’essere laddove

gli ultimi piangono ed hanno mani aperte

Lo scienziato che ritiene immorale far nascere un bimbo Down

È la storia che giudicherà  la grandezza dello scienziato inglese Richard Dawkins.

Tuttavia, se fossi chiamato a dare un giudizio di valore sulla eticità  di alcune sue dichiarazioni, non troverei parole migliori che definirlo un pessimo pensatore, che, pur di ostentare il suo ateismo, non disdegna di svilire la bellezza dell’ umanità così come è.

Del resto, non c’è da stupirsi: un uomo senza Dio, facilmente rovina in disastrosi teoremi, che ne rivelano la follia.

Così, è semplicemente assurdo che un grande! pensatore, all’età di oltre 74 anni, possa trasformarsi in un mestatore verbale, dicendo ad una madre che ” permettere a un bambino Down di nascere, sarebbe immorale “.

Dichiarazione blasfema, che dimostra quanto sia distante lo scienziato inglese dalla conoscenza reale e dalla dolcezza di un ragazzo Down.

Mentre scrivo guardo il mio amico Marco, giovane con la sindrome di Down, attento, pieno di vitalità, pronto a rispondere ad ogni domanda, rispettoso di se stesso e del prossimo.

Caro Scienziato inglese, Marco non  potrebbe essere per lei un grande suggeritore di umanità ?

Ciò che mi addolora

Ciò che mi addolora non è il peso dell’età

che ancora freme nell’incanto delle stelle

e sente il profumo della bellezza che vede

ma i tanti giorni marciti senza nulla dire

del mio esistere su cui calava come coltre

funerea il sipario della vera nullafacenza

Adesso sembrano povere memorie di cadaveri

che rendono triste il passato quasi musica

di doloroso addio a un tempo che non è più

giorni privi di fiori frutti,alberi secchi

ove tutto correva noiosamente senza attesa

neanche del domani,visto solo per mangiare

Quanto pagherei per rianimare almeno pochi

di quei giorni consumati senza nome,invece

di singhiozzare pensando al poco che resta!

IL poco che,nonostante tutto pur mi prende

e mi attrae,segnando nuovi cammini di luce

sui quali incontro il volto le mani di Dio

e gusto,pregando,la tenerezza di sua Madre

La carità non è un accessorio della fede

Il cristiano, che diventa samaritano per il povero, non fa altro che vivere e rivelare un vero e proprio atto di fedeltà al Vangelo.
Invece, genera profonda tristezza chi trascura la cura dei bisognosi lungo la strada e poi in chiesa si mostra zelante nella fede.
Che segno di credibilità può avere una fede, che non orienta verso la carità?

Una fede chiusa solo nella tenda della contemplazione, disincantata dalla indigenza e sorda ad ogni grido di sofferenza, che ignora le pur minime necessitá materiali, certamente non proviene da Cristo nè crea autentica testimonianza.
La carità non è un accessorio della fede nè qualcosa di secondario per la Chiesa, ma è un requisito essenziale della stessa vita di fede e della Chiesa, nella quale, sin dalle origini, furono istituiti ministeri di servizio per gli ultimi.
E non poteva essere diversamente, considerato che Gesù volle nascondere la sua gloria proprio in queste situazioni di povertà.

Tuttavia, non si può restringere l’ afflato caritativo solo  ad un gesto concreto di sostegno  al singolo  povero, anche se importante e sempre gradito al Signore. È necessario prendere coscienza che la carità, basata sul vangelo di Gesù Cristo, ha una dimensione fortemente sociale e politica. Il che significa che ogni vero cristiano  è chiamato ad amare il povero  proprio sul piano sociale, cioè, nell’insieme  di tutte le sovrastrutture che lo condizionano e lo rendono tale. Nello stesso tempo, deve avvalersi di qualsiasi mediazione sociale sia per poter  migliorare la sua vita sia  per eliminare le cause di povertà.

Pertanto, un cristiano che ignora le mediazioni sociali, quali la politica, le varie organizzazioni o le istanze  che mirano al bene comune, oppure le trascura, dimostra che la sua fede non ha ancora scoperto il valore e l’ impegno sociale della carità. Ed è una vera tristezza  trovarsi, soprattutto oggi, al cospetto di tanti cristiani, attenti alla carità verso il singolo, ma del tutto disimpegnati dalla loro  partecipazione alle tante mediazioni sociali, le uniche capaci di trasformare il contesto qualitativo della vita umana.

 

Campo Scout 2014 Casapulla: località ” Le Falode “

camp1Giornata meravigliosa passata con gli Scout alle Falode presso Gallo Matese,in un clima di profonda serenità, dove la gioia dei genitori si coniugava con la spensieratezza dei figli.

Profondamente colpito dall’impegno dei Capi,altrettanto stupito dalla creatività dei reparti e dei lupetti, ho potuto constatare la bellezza dello stare insieme, ben visibile nella reciprocità di tanti sorrisi e comportamenti fraterni.

camp2La celebrazione della Santa Messa è stato il momento più solenne,vissuto in un atteggiamento d silenzio da parte di tutti, attenti e pronti all’accoglienza di Gesù.

fotcamp4camp3L’incontro conviviale,che ha visto le famiglie sparse un po’ ovunque, ha completato la vivacità della giornata con i saluti telefonici dell’Arcivescovo di Capua, S.E. Mons. Salvatore Visco.

XVIII Domenica T.O

L’idea di fondo che attraversa la liturgia della parola di questa domenica è l’amore premuroso di Cristo verso l’umanità, rappresentata dalla folla stanca ed affamata che Lo segue. Il brano del Vangelo riporta il miracolo della  moltiplicazione dei pani e dei pesci, che oltre ad essere segno dei tempi messianici già compiuti in Cristo, raffigura, almeno implicitamente, il sacramento dell’Eucaristia, quale cibo e nutrimento della Chiesa. Ci troviamo davanti ad una ricchezza di sentimenti e di movimenti che attirano con forza la nostra attenzione sulla intensità partecipativa di Cristo ai problemi concreti della gente. Egli, benchè addolorato per l’insuccesso pastorale a Nazaret, dove all’incredulità dei suoi concittadini risponde con il famoso proverbio:”nessun è profeta nella sua patria”; benchè afflitto per la tragica morte di Giovanni Battista, fatto decollare da Erode, di fronte alla sofferenza di una folla stanca che lo sta seguendo numerosa, non resta insensibile. Anzi “sentì compassione per loro – annota l’Evangelista Matteo – e guarì molti malati”. La moltiplicazione dei pani rivela un gesto di benevolenza e di  comprensione, che si fa solidarietà profonda ed assunzione del dolore e dei bisogni di tutti. E la guarigione dei malati rappresenta il segno di questo amore compassionevole e liberante di Cristo. Pertanto, il miracolo dei pani e dei pesci moltiplicati non nasce come manifestazione di potenza, ma come gesto di amore e di partecipazione. Non solo, ma tale miracolo, è anche un gesto di condivisione, in quanto non viene dal nulla, ma da quel poco che gli apostoli hanno:”cinque pani e due pesci”, che mettono in comune in un contesto di disponibilità e di fraternità.

In questo evento miracoloso, oltre a leggere la dimensione escatologica ed il preannuncio dell’Eucaristia,intravediamo anche un’altra dimensione, quella ecclesiologica, che è presente nel coinvolgimento diretto degli apostoli, i quali non solo offrono quel poco di cibo di cui dispongono, ma vengono anche chiamati alla distribuzione dei pani e dei pesci. Così, essi che avrebbero voluto congedare la folla per l’ora tarda, diventano sia testimoni del miracolo sia datori di pane  benedetto e moltiplicato da Gesù. Quella degli apostoli è una posizione di intermediazione: Gesù moltiplica i i pani e li dà agli apostoli per distribuirli alla folla. La Chiesa, quale comunità di salvezza, riceve tutto dal Signore e lo trasmette al mondo. Le dodici ceste piene di pani avanzati, che alludono alle dodici tribù di Israele, sono immagine della Chiesa, fondata sui dodici apostoli, così attivamente impegnati in questo miracolo. Ma la lettura di questo miracolo, oltre a connotarsi di ricchi orizzonti dottrinali, fa affiorare alla mente anche le immagini toccanti della povertà e della fame nel mondo. Certo, evocare la fame disperata di tanti nostri fratelli è un po’ disturbare la nostra indifferenza, il nostro eccessivo benessere. Però, se il nostro pensiero non diventa volontà di carità,tesa a dividere il pane con l’affamato; se non ascoltiamo le voci imploranti dei poveri, condividendo con essi almeno il superfluo, la nostra fede e lo stesso Cristianesimo saranno solo parole, inutili parole. Se Cristo, un giorno, ha moltiplicato materialmente i pani e continua a farlo ancora oggi con il miracolo sacramentale dell’Eucaristia, noi, suoi seguaci, siamo invitati a moltiplicare l’amore e la fratellanza con la condivisione, sicuri che, alla fine, avremo da Lui quello che abbiamo donato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Papa a Caserta

Il desiderio di andare, vedere, toccare Papa Francesco non si arresta in alcun modo, anzi coinvolge tutti, piccoli e grandi, entrambi sedotti dal suo sguardo penetrante, dalla semplicità delle parole, dalla delicatezza dei suoi gesti.

C’ è  nella sua persona un fascino, che lo rende punto di attrazione.

Chiunque sente il profumo della novità, non perché dice cose nuove, ma perché con il suo modo di dire e fare, rende nuove persino le cose più comuni.

Non parla come tanti, che credono di essere gli esclusivi depositari della verità  né  indossa abiti pregiati.

Non usa studiate tecniche di comunicazione né  espressioni stereotipate di alta dottrina.

Le sue sono espressioni di facile comprensione, che catturano subito i cuori di chi ascolta.

E le porge con la dolcezza di un Padre, che fa sentire tutto il suo amore, per cui chi ascolta prova solo vicinanza e non distanza.

Quasi vede in Lui un divino nascosto che parla mediante le sue labbra, gesticola con le sue mani, guarda con gli occhi del suo cuore.

Sembra una pioggia di semi uscire dalla sua bocca ogni volta che parla, pronti ad essere raccolti da coloro che sono presenti.

Semi che si trasformano in un gioco di domande esplicite e risposte silenziose, che mirano a raffrontare il vissuto di chi ascolta con il contenuto del Vangelo del giorno.

E qui si percepisce la presenza dello Spirito Santo, che regala non solo a Lui che parla, ma anche a chi ascolta la sua ricchezza, la quale apre alle sorprese di Dio e facilita la comprensione della bellezza e della presenza nel mondo di Cristo.