Categoria: Fede

VIII Domenica T.O.

Con questa pagina del vangelo si chiude il discorso della montagna che la liturgia ci ha proposto in queste domeniche precedenti. Ebbene, prima di entrare nel cuore del messaggio di oggi, è opportuno sottolineare che questo brano all’inizio e alla fine presenta due frasi che danno l’esatta valenza dell’insegnamento di Gesù. In apertura Egli dice: ”Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona(la ricchezza)”.In chiusura, Gesù dice:” Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia…”. Nella prima frase Gesù, ancora una volta, così come aveva fatto nel discorso della montagna, ribadisce che il Regno di Dio esige delle scelte radicali sia per essere proclamato che per poterci far parte. Chi si mette alla sequela di Gesù Cristo non può barcamenarsi, tenendo il piede in due staffe. Un vero cristiano deve operare decisamente la propria scelta: Dio oppure la ricchezza. E qui bisognare chiarire che Dio non condanna chi possiede delle ricchezze, ma chi fa di esse un idolo, facendosi gestire da esse, fino a divenirne schiavo. Dio non ammette contemporaneità di interesse o di amore: Egli è un Dio geloso, che non ammette rivali. Del resto, quando l’amore è vero e totale, è anche esclusivo e totalizzante. E questo è l’amore che Cristo chiede a noi. Ecco perché ci invita a servire il Signore, abbyandonandoci alla sua Provvidenza di Padre. Un invito che avvolge con immagini poetiche, in un gioco di bellezza naturale con gigliQ ed uccelli, che vengono curati amorevolmente da Dio. I gigli, che Dio veste così belli che neppure Salomone, con la sua gloria, vestiva come uno di loro; oppure gli uccelli, che nulla fanno “eppure il Padre celeste li nutre”. Dalla visione degli uccelli e dei gigli Egli trae un invito per tutti noi a non lasciarsi imprigionare dalla tentazione del denaro, dall’ossessione dell’avere, dalle preoccupazioni ossessive del domani, ma a calarsi con fiducia nelle mani della Provvidenza di Dio, che sa di cosa noi abbiamo bisogno. Per ben tre volte Gesù ripete questo invito:” non affannatevi del cibo o della bevanda, del vestito o del domani”. Un invito al negativo, questo, che in forma positiva significa: ”abbiate fiducia filiale in Dio, che è Padre vostro”, che se provvede agli uccelli, ai fiori del campo e all’erba che hanno tutti una esistenza fragile, quanto più provvederà  a noi? Con questo insegnamento, Gesù vuole liberare il nostro cuore dagli affanni quotidiani, affermando che ciò che è decisivo per la nostra vita è la fiducia in Dio. Purtroppo, in un contesto sociale come il nostro, dove tutto si misura sul dio denaro, sembra mera poesia accontentarsi di risolvere la propria vita terrena con la semplice fiducia in Dio, mettendo così in secondo ordine ogni sicurezza economica. Certamente questa febbre del denaro che genera ogni vizio e persino imbarbarimento dei costumi, si scontra con la nostra fede, nella misura in cui questa “auri sacra fames” diventa idolatria, ossessione di possesso, psicosi di sicurezza come controaltare al Signore. Davanti a tale scenario, Gesù ci invita ad una scelta prioritaria:” Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. Un vero cristiano non deve mai dimenticare che se costruisce la sua scala di valori e le sue scelte sull’avere, alla fine si ritrova “affannato”, come dice Gesù. Forse sarà socialmente ricco, ma sarà umanamente povero, spiritualmente vuoto, inutile per il regno di Dio. Viceversa, un cristiano che si immerge nella Provvidenza, che sceglie ogni giorno la via della fiducia e della speranza, dell’attesa e dell’abbandono in Dio, è un autentico esempio di provvidenza divina, che esclude dal suo cuore la preoccupazione, ma non lo dispensa dall’impegno nelle cose della terra. Vorrei concludere con un pensiero di S. Paolo, che ben racchiude lo stile di vita del cristiano:” Il tempo ormai si è fatto breve. D’ora innanzi quelli che piangono vivano come se non piangessero e quelli che gioiscono come se non gioissero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno”(1Cor.7,29-31).

 

 

 

VII DOMENICA T.O.

Domenica scorsa abbiamo esaminato quattro delle sei antitesi, mediante le quali Gesù rivelava che “non era venuto per abolire la Legge o i profeti, ma per portarli a pienezza”. Oggi completa la serie con le ultime due contrapposizioni, nelle quali  ancora una volta introduce la novità del suo insegnamento,superando così l’interpretazione riduttiva e formalistica  del vecchio Testamento. In queste due antitesi Gesù proclama la superiorità  dell’amore rispetto alla  rigida giustizia vendicativa.  Nella prima antitesi Gesù dice:” avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente”; ma io vi dico di non opporvi al malvagio…”.

Questa  norma del V.T è conosciuta come” la legge del taglione”, dal latino ius talionis che consisteva nell’infliggere a chi si era reso responsabile di una lesione personale, una uguale a quella da lui compiuta. Questa legge che era già presente nella legislazione orientale come si constata nel codice di Hammurabi, sec. XVIII, con il tempo passò anche nella legge biblica, e, precisamente per tre volte la troviamo nel Pentateuco (Es.21,23-25;Deut.25,11-12;Nn.35,33). Oggi molti cristiani si meravigliano dell’esistenza biblica di questa legge. Uno stupore ipocrita soprattutto se si consideri che una specie di legge del taglione continua ad essere  presente nei nostri cuori. Anzi, in molti cristiani sembra che trionfi la “legge di Lamech”. Sapete chi era Lamech? Un lugubre personaggio, discendente di Caino che nel capitolo 4 della genesi esclama:”io uccido un uomo per una sola mia scalfittura e un ragazzo per un livido. Sette volte è stato vendicato Caino; Lamech sarà vendicato settantasette volte”. Oggi viviamo in un contesto dove per una minima violenza subita, si risponde con una violenza spropositata, generando una spirale di odio. Per Gesù tutto ciò non deve  esistere. Non solo non deve esistere  la vendetta effettiva, ma anche il desiderio di vendetta.

Nella seconda antitesi Gesù dice:” avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo ed odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici…se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Per gli Ebrei “prossimo” era il parente o il connazionale, per Gesù “prossimo” è ogni uomo, senza distinzione di razza, di lingua o di religione. Egli dilata i confini del “prossimo”, inglobando persino il nemico, per cui ogni uomo va amato. Ci si trova al cospetto di un amore universale, che è il culmine dell’insegnamento di Gesù. Pertanto, a chi si mette alla sequela di Cristo non basta il semplice salutare o il semplice amare i propri amici, cosa che fanno tutti. C’è bisogno di qualcosa di più, di essere, cioè, perfetto come è perfetto il Padre vostro. Mettendo in pratica questo amore, noi ci comportiamo ad imitazione di Dio padre che “fa sorgere il suo sole sui i cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”. Nello stesso tempo, ci comportiamo da veri figli di Dio, che si lasciano plasmare dal suo amore di Padre misericordioso. Poi, Gesù conclude le  sei antitesi con l’esortazione:” siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”: una conclusione che motiva tutto il suo insegnamento e dilata ciò che nella prima lettura afferma l’autore del Levitico:” Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”. E’ l’amore che ci rende perfetti; è l’amore che ci fa santi.

 

Fede e Ragione come due ali

Una fede che trascura l’intelligenza e la ragione è vana. Il credente è chiamato a rendere ragione della propria fede, della propria speranza. Pietro così si rivolge ai cristiani: “Siate sempre pronti a rendere ragione (fare apologia) della ragione (logos) della speranza che è in voi” (1Pt 3, 15). S. Agostino afferma: Fides si non cogitetur, nulla est (la fede se non è pensata è nulla). Riscoprire la bellezza della propria fede significa anche ricomprendere il rapporto inscindibile tra fede e ragione. Molto spesso noi pensiamo che la fede e la ragione percorrano strade differenti, itinerari paralleli che mai si incontrano. Comunemente diciamo che la fede inizia lì dove la ragione ha terminato la sua indagine. Non è proprio così. Fede e ragione camminano insieme. Fede e ragione lavoro insieme e insieme, come due ali, si aprono nel volo verso la conoscenza della verità. Bellissima è l’immagine che Giovanni Paolo II utilizza nell’incipit della Fides et Ratio: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso». L’immagine delle due ali è significativa: un’aquila non può volare con un’ala soltanto; così l’uomo non può pretendere di giungere alla verità senza il servizio concomitante di fede e ragione. Senza queste due ali la vocazione umana alla verità non può essere pienamente espletata.

A cura di don Agostino Porreca

 

VI Domenica T.O.

vecchio“Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge e i profeti; non sono venuto per abolire,ma per dare compimento”. Prima di entrare nel merito di questo brano evangelico, è opportuno sottolineare che” la legge e i profeti” indicavano tutta la rivelazione dell’Antico Testamento; e, precisamente dal Pentateuco ai libri storici e profetici, includendo i Salmi e gli scritti sapienziali. Con questa affermazione Gesù si pone su di una linea di continuità con il V.T.; per cui Egli non è un rivoluzionario che è venuto a distruggere l’antica rivelazione, ma solo per darle compimento. Del resto, ”la legge e i profeti” sono parola di Dio, e Dio ha rivelato se stesso, parlando appunto attraverso Mosè e i profeti. Pertanto, tutto l’antico T. è “la via all’Evangelo” di Gesù, che darà ad esso una forza definitiva. Da ciò possiamo comprendere che tutto il V.T. è preparazione , è promessa e attesa dell’avvento di Gesù, che resta il centro, la base e l’apice dell’Antica Alleanza. Oggi attraverso le parole di Gesù noi entriamo lentamente nel mistero del Figlio di Dio. Dicendo che Gesù non è un rivoluzionario che vuole distruggere il V.T., possiamo comprendere le sei contrapposizioni che troviamo nel vangelo di oggi. Esse dimostrano non solo la novità del suo Vangelo, ma anche la coscienza della sua superiorità rispetto a Mosè e all’intera legge della vecchia Alleanza. Come dice San Paolo, la legge mosaica e l’antico T. nel loro complesso miravano solo a preparare alla fede in Gesù. Ciò che dobbiamo rilevare in queste contrapposizioni è l’elemento di completamento della legge antica, che Gesù esprime quando, dopo aver precisato:” avete inteso che fu detto…”, dichiara:” ma io vi dico…”. Con questa formula Gesù introduce il contenuto e lo spirito del suo insegnamento nuovo; indica quel “di più” che caratterizza la sua parola e la sua esistenza; quel “di più” rispetto a Mosè e al V.T. che ci permette di entrare nel mistero di Gesù stesso. Esaminiamo alcune contrapposizioni:” avete inteso che fu detto: non uccidere…ma io vi dico…;… non commettere adulterio… chiunque guarda una donna per desiderarla…;…chi ripudia la propria moglie….chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima…;…non giurare il falso….non giurate affatto….. Osservando queste antitesi, riscontriamo che il vecchio T. impone il minimo legale che si soddisfa con la sola osservanza letterale della legge; mentre Gesù esclude ogni codice giuridico, sollecitando lo spirito della legge animata dall’amore. È una vera svolta che trasforma la religione da osservanza di un insieme di norme in una adesione totale della coscienza e della vita. Relativamente alla prima contrapposizione Gesù non solo condanna l’omicidio, ma anche qualsiasi azione o sentimento di avversione verso il prossimo. In riferimento all’adulterio, Gesù condanna non solo il fatto compiuto,ma anche il desiderio,e, quindi l’adulterio del cuore. Per quanto riguarda il divorzio, Gesù proclama l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, ribadendo che all’inizio dell’umanità Dio stabilì “un solo uomo per una sola donna”. Infine, in riferimento allo spergiuro, Gesù proclama la verità, la sincerità del cuore, l’onestà con l’esclusione del giuramento. Da tutto ciò si può capire che Gesù afferma la priorità dello spirito sulla legge, per cui la morale cristiana non si limita all’osservanza ritualistica e legalistica delle norma, ma coinvolge tutta la persona con il suo cuore e con la sua mente, impegnata, nelle scelte quotidiane, al rispetto e all’amore verso Dio ed il prossimo. In altre parole,Cristo contro i 613 precetti numerati dai rabbini, ci ricorda, citando il V.T. ,che il comandamento è uno solo, però abbraccia ogni istante ed ogni atto della vita:”Amerai il Signore Dio tuo con …….. ed il prossimo tuo come te stesso”. E’ da questo comandamento che “dipende tutta la Legge e i Profeti”(Mt.22,37_40).

V Domenica Tempo Ordinario

saleQuella di oggi è la domenica “del sale e della luce”. Due immagini semplici, ricche di significato, tratte dall’esperienza quotidiana, con le quali Gesù definisce la natura del vero cristiano, e, quindi, ci presenta l’identità del vero discepolo. E lo fa subito dopo la proclamazione delle Beatitudini, quasi a volerci dire che solo chi è povero in spirito, mite, misericordioso, operatore di pace, può diventare sale della terra e luce del mondo. In altre parole, colui che Gesù chiama “beato”, non lo è solo per se stesso, ma anche  per gli altri. Il discepolo, che sa di essere il riflesso della identità di Gesù, non può non ascoltare l’invito ad essere punto di riferimento, di purificazione e di trasformazione nel contesto storico e sociale in cui vive ed opera. Pertanto, cogliere il valore di queste due immagini, sulle quali Gesù innesta l’insegnamento rivolto ai discepoli, è molto importante. Ebbene, nella prima troviamo una vivace qualificazione di coloro che si mettono alla sequela di Cristo: ”Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini”. Al di là della ricchezza simbolica che il sale evoca presso gli antichi, possiamo dire che esso è un felice simbolismo per configurare la natura del cristiano, il quale deve essere in mezzo agli uomini quello che il sale è nel cibo. La sua presenza nel cibo, anche se non si nota, è indispensabile; viceversa, la sua assenza non passa inosservata e, quindi, non si può nascondere. Come il sale, che agisce negli alimenti in maniera discreta,scioglie nodosi e perdendosi in un gustoso sapore, così ogni cristiano, in umiltà e senza chiasso, deve saper dare sapore nuovo alle cose. Deve far rinascere il gusto e il desiderio di ciò che e’ semplice, di fronte ad un mondo così sofisticato ,che ci propina tante stranezze  comportamentali. Un cristiano che semina gioia, che si pone  quale testimone di onesta’ o portatore di solidarietà; e lo fa senza grandi parole ed ostentazioni, esprime in maniera feconda il suo compito di essere sale della terra. Viceversa, un cristiano che non diventa all’interno di una comunità, vera profezia, pero’ non a parole,ma con le opere, rischia di essere insignificante, del tutto inutile.  E l’ insignificanza  è il pericolo che incombe su molti di noi, spesso sedotti solo dal profetismo delle parole, nel disincanto della vita quotidiana, nella quale più che testimoniare Cristo, preferiamo soltanto metterci in mostra, accaparrarci le prime pagine, dimenticando che Gesù non si è mostrato al mondo in modo spettacolare, ma in tono umile e dimesso. Questa immagine del sale, usata da Gesù per designare i discepoli e la Chiesa, è da Lui completata con quella della luce: ”Voi siete la luce del mondo”. Come Cristo, luce che rischiara il cammino dell’umanità verso Dio, così noi cristiani, suoi seguaci, siamo chiamati a manifestare, con la luce della nostra fede, Dio agli occhi del mondo. E tale annunzio non lo dobbiamo far passare solo attraverso le parole, ma attraverso la testimonianza delle opere:” Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perchè vedano le vostre opere e rendano gloria al Padre che è nei cieli”.le quali rendono visibile nella nostra vita la forza trasformante del Vangelo. Solo davanti a queste opere il mondo saprà vedere la mono di Dio, e leggerà sul volto di chi le compie i tratti del volto di Cristo. Significativo a tale proposito, è il rimprovero che il filosofo tedesco, ateo, il Nietzsche, rivolgeva ai cristiani:” Se la buona novella della vostra Bibbia fosse anche scritta sul vostro volto, voi non avreste bisogno di insistere…… le vostre opere dovrebbero rendere quasi superflua la Bibbia, perché voi stessi dovreste essere la Bibbia viva”. Purtroppo, molto spesso più che essere pagine evangeliche viventi, specchio dell’agire stesso di Dio, siamo soltanto cembali sonori, vibranti per noi stessi e per le nostre esigenze di protagonismo. Ebbene, la testimonianza delle opere è richiamata in maniera energica anche nella prima lettura, ripresa dal libro di Isaia, dove il profeta, lungi da ogni forma di ritualismo, esalta il primato dell’amore: ”spezza il tuo pane con l’affamato, introduci in casa i miseri, senza tetto, vesti chi è ignudo, senza distogliere gli occhi dalla tua gente. Allora la tua luce sorgerà come l’aurora”. Il cristiano che ama concretamente, che si mette dalla parte del bisognoso, risplende davvero come luce; una luce che, squarciando le tenebre dell’errore, rende possibile l’incontro con Dio e con i fratelli. Pertanto, non possiamo continuare ad essere cristiani chiusi in noi stessi, soddisfatti della nostra fede, espressa nella semplice pietà ritualistica.  Dobbiamo essere cristiani per gli altri, al servizio di tutti, non ostentando la nostra magniloquenza persuasiva con una sorta di autocompiacimento, ma seguendo la logica di Cristo Crocifisso, che dalla debolezza della Croce fa scaturire la più grande luce d’amore, che tutti dobbiamo testimoniare con la forza dello Spirito Santo.

La Presentazione di Gesù al Tempio

La liturgia della Parola di questa Domenica pone alla nostra attenzione il racconto della presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme. Un racconto tratto dal Vangelo di Luca.

Ci si trova al cospetto di un fatto storico-teologico, che viene arricchito ed interpretato con figure, riferimenti e citazioni del Vecchio Testamento. Infatti, non si può negare che alla narrazione di oggi, dove leggiamo  che Giuseppe e Maria portano Gesù al tempio, per adempire la duplice prescrizione della legge di Mosè: presentazione del primogenito maschio al Signore e purificazione della madre dopo  40 giorni dal parto, soggiace la storia  del piccolo Samuele, divenuto poi un grande profeta,  presentato dalla madre al sacerdote Eli. (I Sam 1,24-28)

Ebbene,le parole che il Vangelo oggi mette  sulle labbra del vecchio Simeone, simbolo di tanti altri che in Israele aspettavano il Consolatore, la salvezza messianica,  sono il punto fondamentale e centrale del racconto. Esse contengono nella prima parte una proclamazione, nella seconda invece  una profezia.

Premesso che sia Simeone che la profetessa Anna incarnano l’attesa messianica del popolo di Israele, è opportuno sottolineare che nella proclamazione  registriamo l’ esatta valenza del mistero che celebriamo oggi: sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, che aveva rivelato al vecchio Simeone, che non avrebbe visto la morte senza aver visto il Messia, Egli, Simeone, chiama Gesù Salvatore, luce delle genti e gloria di Israele. E dopo aver gustato tra le sue braccia il profumo di Dio, il Messia, Simeone si scioglie in un cantico di profonda tenerezza e di illuminata bellezza:” Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”. Un quadro veramente stupendo, dove due sono i protagonisti: Simeone e il Bambino,una vita che sta per tramontare, un’altra che è  appena fiorita. Sembra vedere la vecchiaia del mondo che accoglie fra le sue braccia l’eterna giovinezza di Dio.

Fin qui sembra che Maria e Giuseppe, presenti nel Tempio,  ascoltino soltanto scoppi di gioia, tanto è vero  che  provano grande stupore per le cose che tutti  dicevano di Gesù. Ma questa  gioia che canta il futuro di Gesù, subito si trasforma in un futuro di sofferenza. Infatti, nella seconda parte del racconto, il vecchio Simeone si rivolge a Maria, la madre di Gesù, alla quale dice  tre parole immense, che anticipano la vera storia di Gesù:” Egli è  qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione,  perché siano svelati i pensieri di molti cuori”. Un oracolo questo che delinea il vero volto di Gesù e la sua incidenza nella storia dell’umanità : salvezza e giudizio, accettazione e rifiuto, fede ed incredulità, che si scontrano in una lotta che ha come centro il Cristo.

Così,  dopo la proclamazione messianica, Simeone annuncia il dramma della passione di Gesù, nel quale Maria ha la sua partecipazione. Infatti, Simeone a Lei  dà un oscuro annunzio,  che ha come simbolo la spada che trafiggerà la sua anima.  Il che sta a significare che anche Maria è nel cuore della battaglia pro o contro suo Figlio; anzi, con le sue parole, Simeone sottolinea l’intima unione madre-Figlio. La stessa spada  che uccide il Figlio, trapasserà l’anima di Maria. Come si può constatare, Maria è associata intimamente al destino e alla morte del Figlio non solo per la sofferenza che prova ai piedi della croce, ma anche per il ruolo che Lei svolge nell’economia della salvezza. Esempio di  questa intima unione Madre-Figlio la troviamo nella  metafora della spada, che  è probabilmente un implicito richiamo al testo di Ezechiele 14,17, dove  leggiamo: “Una Spada attraversa questo paese”. La spada che attraversa Israele è la predicazione di Gesù, la Parola di Dio, che “è più tagliente di ogni spada a doppio taglio. Essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito… e sa discernere i sentimenti e il pensieri del cuore”. (Eb 4,12). Essa provoca la rovina di molti,  perché li obbligherà a svelare i pensieri occulti del loro cuore, prendendo posizione di fronte alla parola di Gesù: o con Lui o contro di Lui.

Ebbene questa stessa spada attraversa la vita di Maria nel senso che essa, comunicando con i sentimenti del suo popolo, ne sente tutta la tragedia dovuta al rifiuto di Gesù; e questa tragedia diventerà ancora più dolorosa ai piedi della croce. Pertanto, la parola dell’anziano Simeone segna un culmine di infinita sofferenza.

L’agire di questa spada, rifiuto del Vangelo, si accentuerà nella storia con la divisione Giudei-cristiani e continuerà anche nella storia della Chiesa. La sofferenza di Maria non è mai finita, perché essa, quale Madre,  ama tutti noi suoi figli e vorrebbe che tutti accogliessimo  Gesù per salvarci.

 

Domenica III Tempo Ordinario

unitàIl messaggio fondamentale della liturgia della Parola  odierna è dato dal simbolismo della “luce”, che, già domenica scorsa, il profeta Isaia ha annunciato per il servo sofferente di Jahvè:”Io ti renderò luce delle nazioni”. Questa “grande luce” che Dio, attraverso il profeta, promette alle regioni di Zabulou e Neftali, soggiogate dal re dell’Assiria, è Gesù Cristo, il quale viene presentato dall’ evangelista Matteo come Colui che realizza le profezie del Vecchio Testamento.

Infatti, esplicito è il collegamento  quando dice: ”Gesù……venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zabulou e di Neftali, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo per profeta Isaia”. Non solo Gesù è identificato in questa “grande luce”, ma anche il suo insegnamento si profila come una “grande luce”, che egli compendia in una sola espressione, carica di attrazione trasformante: ”Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino”. Qui, con forza, senza compromessi, proclama che la regalità di Dio si è fatta vicina all’uomo; e, per mezzo di Lui, Dio è entrato nel tempo, nella storia, per farsi compagno di viaggio dell’uomo; per bussare alla porta del suo cuore, onde elevarlo e trasformarlo in un’esperienza di grazia, di luce e di gioia.

Quella di Dio è una vicinanza che si realizza  sì in Cristo, però esige un cambiamento profondo del cuore e della mente; una trasformazione interiore che diventa disponibilità, apertura. Pertanto, se nel messaggio di Cristo è centrale l’annuncio del regno di Dio, la nostra conversione è la condizione essenziale per entrarvi; se Gesù è la luce che risplende nel mondo, la sua accoglienza richiede che ognuno di noi debba mettersi in un atteggiamento di conversione permanente. Senza dimenticare che la conversione è già frutto del regno, è il segno della sua presenza. Infatti, nella misura in cui si arricchisce la nostra capacità di autotrasformazione, di cambiamento di vita in Cristo, nella stessa misura il regno di Dio si fa più vicino a noi.

Ebbene, i primi raggi di questa “grande luce” che è Cristo, e della conversione che opera nel cuore degli uomini, li vediamo quando Gesù chiama i quattro discepoli Pietro ed Andrea, Giacomo e Giovanni: ”seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Come si constata, non sono loro a seguire spontaneamente Cristo, ma è Lui che li sceglie e li chiama alla sequela, la quale non implica tanto la ricerca di una dottrina, quanto l’amore verso la sua Persona e  il percorso sulla medesima strada, che arriva alla croce. Questi primi discepoli certamente non conoscono l’intensità significativa della sequela, alla quale vengono chiamati; ma la risposta, decisa e senza incertezze, mette in evidenza la disposizione del loro cuore: ”subito, lasciate le reti, lo seguirono”, inserendosi in una esistenza del tutto diversa, con un ribaltamento totale del loro essere.

Questo episodio non è semplice storia del passato senza proiezioni nel presente o senza creatività esistenziale per il futuro, ma vuole essere un modello di risposta, valido nel tempo e per sempre, per tutti gli uomini che, chiamati da Cristo alla fede, si convertono alla sua sequela. Ed in questa prospettiva di conversione possiamo leggere la seconda lettura, ripresa dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi, nella quale  l’Apostolo condanna la stoltezza di tutti quei cristiani che per motivazioni personali, o di contesa o di simpatia, si rendono portatori di divisioni all’interno della Chiesa. A costoro San Paolo dice: ”non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di intenti”, perché Cristo è venuto a riunire e non a dividere.

Dividersi o contrapporsi nella Chiesa significa pervertire il concetto stesso di Chiesa. Purtroppo, molti cristiani, nel corso della storia, hanno frantumato l’unità della Chiesa in tante e diverse confessioni, dividendo davvero Cristo, con la trasgressione di quella preghiera, che Gesù, nel suo congedo da noi, rivolge al Padre: “che tutti siano una cosa sola, perché il mondo creda che Tu mi hai mandato”.

Piccole e grandi sono le divisioni che, purtroppo,  registra la storia della Chiesa. Al di là di quelle  piccole vissute nell’ambito delle nostre stesse comunità, ricordiamo le grandi scissioni avvenute nella Chiesa nel corso del tempo: lo scisma d’oriente nel sec. XI° che dette inizio nel 1054 alla Chiesa ortodossa con Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli; lo scisma d’occidente nel 1517 in Germania con Martin Lutero; l’altra divisione in Inghilterra con Enrico VIII° nel 1534 che segna la nascita delle Chiese protestanti.

Queste divisioni sono pesanti come macigni sull’unità dei cristiani. Macigni, però, che possono essere eliminati se, tutti aperti allo Spirito, rivisitiamo gli avvenimenti storici non più nell’ottica dei personalismi, ma alla luce della parola di Dio, convinti che è più quello che ci unisce che quello che ci divide. Credo che dobbiamo imparare con sincerità ad amare di più ciò che siamo, senza però odiare ciò che non siamo. Non è cristiano alzare barriere di divisione nei confronti di chi pensa diversamente. Nel rispetto delle legittime differenze, attraverso l’amore ed il dialogo, dobbiamo sentirci impegnati in una vera opera di conversione al regno di Dio, consapevoli che quando ci riuniamo nel nome di Gesù, Egli è in mezzo a noi.

 

La fede non è un optional

torta ILa fede è necessaria per vivere. La fede non è un optional. L’uomo ha bisogno di Dio o le cose vanno ugualmente bene anche senza Dio? Se l’uomo dimentica Dio – amava ripetere Benedetto XVI – perde sempre più la vita, perché la sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio; l’uomo è essere relazionale, è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Dio. Per cui la fede non è un elemento accessorio, ma è necessaria all’uomo per vivere. L’uomo è capace di Dio (capax Dei); nel suo cuore è inscritto il desiderio profondo di Dio, che è desiderio di gioia, di pienezza, desiderio di Cielo. L’uomo è fatto per andare oltre l’umano, per trovare in Dio il significato del suo essere pienamente uomo. Ecco allora la necessità della fede per l’uomo. Papa Francesco, con una immagine ad effetto immediato, semplice, ma diretta e toccante, così ha espresso la necessità della fede per la vita dell’uomo: “La fede non è una cosa decorativa, ornamentale, non è decorare la vita con un po’ di religione … come si fa con la panna che decora la torta” (Angelus 18 agosto 2013). Pur essendo l’uomo aperto al Trascendente, pur essendo l’uomo capace di Dio e della relazione con Lui, non può conoscere Dio unicamente confidando nelle proprie forze o capacità. La fede nasce dal dono della Rivelazione e dalla grazia di aderivi. Per quanto l’uomo cerchi Dio, per quanto tenti di vedere il suo volto, per quanto si sforzi di conoscere il suo mistero, non può farlo con le sole proprie forze. L’uomo cerca Dio con tutte le sue capacità. Questa ricerca è santa, è bella, ma da sola non può raggiungere Dio; è necessaria la Rivelazione, l’autocomunicazione di Dio; e ancora di più è necessaria la grazia che permette all’uomo di aderire con gioia e libertà alla Rivelazione di Dio e al suo disegno provvidenziale sulla storia. La fede è risposta; la fede è dono; la fede nasce dallo stupore dinanzi a Dio che gratuitamente si rivela e si dona. È consegna di sé al Dio Amore che per primo si è consegnato all’uomo nel suo Figlio Gesù. Questa misteriosa e reciproca “consegna” dà all’umano esistere pienezza di senso.

 A cura di don Agostino Porreca

Ecco l’ Agnello di Dio: Domenica II Tempo Ordinario

 

agnelloCon le feste dell’Epifania e del Battesimo di Gesù sono finite le celebrazioni del tempo liturgico del Natale. Co questa domenica inizia il tempo ordinario, detto così, perché con esso non celebriamo i momenti forti della storia della salvezza, quali l’’Avvento, il Natale, la Quaresima, la Pasqua, ma soltanto il mistero di Cristo nella sua vita pubblica. Un tempo che ci permette di conoscere e di vivere quanto Gesù ha compiuto in opere e parole qui, in mezzo a noi.

Il Vangelo di Giovanni ci offre una preziosa testimonianza del Battista, il quale, per primo, manifesta al popolo presente sia la figura che la missione di Cristo, indicato come “Agnello di Dio”, “Colui che toglie il peccato del mondo”.

Affermazioni ricche di significato, che certamente meritano attenta riflessione.

Relativamente all’indicazione di Gesù, quale “Agnello di Dio”, non è del tutto chiaro che cosa intendesse dire il Battista con questa immagine. Secondo alcuni, con tale designazione ha voluto riferirsi all’”Agnello pasquale”: un’immagine molto cara e familiare agli Ebrei, i quali ogni anno celebravano la Pasqua con il rito dell’agnello, che i loro antenati avevano consumato prima di partire dall’Egitto. Con tale rito non solo rievocavano fatti storici: la loro liberazione, il passaggio attraverso il mar Rosso, l’Alleanza stipulata sul Sinai; ma tramite tale rievocazione essi davano a questi avvenimenti efficacia anche nel presente. Secondo altri, con tale indicazione il Battista ha voluto riferirsi al servo sofferente di Iahvè. Una figura questa che domina il Vecchio Testamento e che nel profeta Isaia acquista connotazioni fortemente messianiche, tanto è vero che Gesù applica a Sé questi carmi, soprattutto là dove il profeta dice “maltrattato si lasciò umiliare……era come agnello condotto al macello”.

Pertanto, senza esclusivizzare l’immagine dell’agnello a questo oppure a quel riferimento biblico, possiamo senz’altro affermare che entrambe le figure “servo di Jahvè” e “Agnello di Dio” sono legate alla sofferenza, al sacrificio; e stanno ad indicare che Cristo è nello stesso tempo servo sofferente che, con la sua immolazione “fatta una volta per sempre”, realizza la Pasqua definitiva.

Oltre all’immagine dell’agnello è necessario anche sottolineare la missione che il Battista attribuisce a Gesù, quando lo indica come “Colui che toglie il peccato del mondo”. Prendendo su di sé i nostri peccati, Egli, oltre a cancellarli, inaugura il tempo della santità, indicandoci lo stile di vita che dobbiamo avere. Purtroppo, non possiamo negare che il peccato è una triste realtà, presente tra di noi ed in ognuno di noi. Anche se siamo stati redenti, non siamo stati resi perfetti, per cui facilmente ci lasciamo sedurre dalle tentazioni della superbia, dell’odio, della vendetta; facilmente scivoliamo nelle situazioni di peccato che offuscano la nostra dignità umana e cristiana. Però non dobbiamo scoraggiarci, perché abbiamo questa grande speranza: Gesù è l’Agnello che toglie il peccato del mondo. In Lui, per Lui e con Lui, noi possiamo ricevere il male e costruire un mondo più umanizzato, più pacificato, più giusto.

Ma la testimonianza del Battista colpisce anche per la sua dichiarazione che Gesù è il Figlio di Dio. Anzi, nelle sue parole troviamo un crescendo che inizia con il riconoscere che Gesù è “l’Agnello di Dio”, il Messia sofferente; progredisce con la visione dello Spirito Santo che scende su di Lui in forma di colomba; culmina con l’attestazione esplicita della filiazione divina di Gesù: ”E io ho visto e ho reso testimonianza – dice il Battista – che questi è il Figlio di Dio”. Ci troviamo davanti ad un vero e proprio cammino di fede verso la conoscenza del mistero di Dio, attuato in Cristo. Questa testimonianza del Battista diventa esemplare anche per il nostro cammino di fede, spesso segnato da dubbi, perplessità e disorientamenti. Come il Battista, anche noi siamo in cammino, in crescita nella fede, passando progressivamente dalla non conoscenza alla conoscenza del Signore. E conoscere Gesù è un impegno primario per noi cristiani. Non possiamo amare né seguire né tanto meno testimoniare chi non conosciamo. La conoscenza è la condizione essenziale ed indispensabile per accettare una persona e per essere disposta a soffrire per essa. Solo conoscendo l’amore di Cristo, redentore del mondo, penetrato, in modo unico ed irrepetibile, nel mistero dell’uomo e nel suo cuore, noi possiamo percorrere la via dell’amore che si sacrifica per gli altri; e, nello stesso tempo, possiamo adoperarci, con la testimonianza della parola e con l’impegno della vita, a rendere visibile la luce di Cristo, che ci è stata donata, perché diventiamo altrettante luci di carità, di solidarietà e di condivisione, in obbedienza alla volontà del Padre.

La fede: abbandonarsi ad un ” Tu ” che mi sostiene

 

fede come abbandono in Dio«A Dio che rivela è dovuta «l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente» (Dei Verbum 5). Con questo testo il Concilio Vaticano II ci dona una preziosa descrizione della realtà della fede che supera quella concezione intellettualistica e contenutistica che si era imposta con il Concilio Vaticano I. Credere non significa aderire intellettualmente ad alcune verità rivelate; credere non equivale semplicemente a prestare l’assenso dell’intelletto e della volontà ad un corpus dottrinale. Aver fede significa prima di ogni cosa abbandonare la propria vita nelle mani di un Altro che abbiamo riconosciuto come il centro, il fondamento e il senso della nostra storia personale. La fede è sì assenso dell’intelletto e della volontà a Dio che si rivela, ma è anche adesione totale e libera dell’uomo. La fede nasce e si sviluppa all’interno di un rapporto interpersonale e storico, che matura nella comunità ecclesiale. La fede è dialogo interpersonale, interpellante incontro di libertà. Dio, nella sua bontà e sapienza, in maniera assolutamente gratuita e incondizionata, desidera da sempre aprire un dialogo salvante con l’uomo, un salutis colloquium (Paolo VI). La fede è dunque ob-audio, fiducioso affidamento di sé a Dio che si rivela in Cristo come Amore, ascolto dinamicamente proteso verso una Parola portatrice di senso ultimo e definitivo, abbandono totale, libero e consapevole, reso possibile dall’iniziativa gratuita e libera di un Padre, che «muove il cuore» dell’uomo e «apre gli occhi dello spirito», donando a tutti dolcezza e soavità nel consentire e nel credere alle verità. Aver fede è dire “Io credo in Te, Gesù, quale senso pieno della mia vita”. Avere fede è abbandonarsi con l’atteggiamento del bambino ad un «Tu che mi sostiene e che, nell’incompiutezza e nella profonda inappagabilità di ogni incontro umano, mi accorda la promessa di un amore indistruttibile, che non solo aspira all’eternità, ma ce la dona» (J. Ratzinger).

A cura di Don Agostino Porreca