Categoria: Fede

XVIII Domenica T.O

L’idea di fondo che attraversa la liturgia della parola di questa domenica è l’amore premuroso di Cristo verso l’umanità, rappresentata dalla folla stanca ed affamata che Lo segue. Il brano del Vangelo riporta il miracolo della  moltiplicazione dei pani e dei pesci, che oltre ad essere segno dei tempi messianici già compiuti in Cristo, raffigura, almeno implicitamente, il sacramento dell’Eucaristia, quale cibo e nutrimento della Chiesa. Ci troviamo davanti ad una ricchezza di sentimenti e di movimenti che attirano con forza la nostra attenzione sulla intensità partecipativa di Cristo ai problemi concreti della gente. Egli, benchè addolorato per l’insuccesso pastorale a Nazaret, dove all’incredulità dei suoi concittadini risponde con il famoso proverbio:”nessun è profeta nella sua patria”; benchè afflitto per la tragica morte di Giovanni Battista, fatto decollare da Erode, di fronte alla sofferenza di una folla stanca che lo sta seguendo numerosa, non resta insensibile. Anzi “sentì compassione per loro – annota l’Evangelista Matteo – e guarì molti malati”. La moltiplicazione dei pani rivela un gesto di benevolenza e di  comprensione, che si fa solidarietà profonda ed assunzione del dolore e dei bisogni di tutti. E la guarigione dei malati rappresenta il segno di questo amore compassionevole e liberante di Cristo. Pertanto, il miracolo dei pani e dei pesci moltiplicati non nasce come manifestazione di potenza, ma come gesto di amore e di partecipazione. Non solo, ma tale miracolo, è anche un gesto di condivisione, in quanto non viene dal nulla, ma da quel poco che gli apostoli hanno:”cinque pani e due pesci”, che mettono in comune in un contesto di disponibilità e di fraternità.

In questo evento miracoloso, oltre a leggere la dimensione escatologica ed il preannuncio dell’Eucaristia,intravediamo anche un’altra dimensione, quella ecclesiologica, che è presente nel coinvolgimento diretto degli apostoli, i quali non solo offrono quel poco di cibo di cui dispongono, ma vengono anche chiamati alla distribuzione dei pani e dei pesci. Così, essi che avrebbero voluto congedare la folla per l’ora tarda, diventano sia testimoni del miracolo sia datori di pane  benedetto e moltiplicato da Gesù. Quella degli apostoli è una posizione di intermediazione: Gesù moltiplica i i pani e li dà agli apostoli per distribuirli alla folla. La Chiesa, quale comunità di salvezza, riceve tutto dal Signore e lo trasmette al mondo. Le dodici ceste piene di pani avanzati, che alludono alle dodici tribù di Israele, sono immagine della Chiesa, fondata sui dodici apostoli, così attivamente impegnati in questo miracolo. Ma la lettura di questo miracolo, oltre a connotarsi di ricchi orizzonti dottrinali, fa affiorare alla mente anche le immagini toccanti della povertà e della fame nel mondo. Certo, evocare la fame disperata di tanti nostri fratelli è un po’ disturbare la nostra indifferenza, il nostro eccessivo benessere. Però, se il nostro pensiero non diventa volontà di carità,tesa a dividere il pane con l’affamato; se non ascoltiamo le voci imploranti dei poveri, condividendo con essi almeno il superfluo, la nostra fede e lo stesso Cristianesimo saranno solo parole, inutili parole. Se Cristo, un giorno, ha moltiplicato materialmente i pani e continua a farlo ancora oggi con il miracolo sacramentale dell’Eucaristia, noi, suoi seguaci, siamo invitati a moltiplicare l’amore e la fratellanza con la condivisione, sicuri che, alla fine, avremo da Lui quello che abbiamo donato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIV DOMENCA (A)

Il brano del Vangelo di Matteo, proposto dalla liturgia della Parola odierna, ci presenta una delle preghiere più belle pronunciate da Gesù. Una preghiera di grande intensità, di profonda intimità con Dio, nella quale Gesù dichiara esplicitamente l’orizzonte del suo amore preferenziale: i poveri, i semplici, gli emarginati. Gli unici che riescono a vedere nella sua Persona l’azione di Dio. Per comprendere tale brano, che si compone di tre strofe perfettamente integrate, dobbiamo penetrare il contesto di rifiuto e di ostilità che circonda Gesù. Farisei e scribi, ed un po’ tutte le classi dell’intellighenzia ebraica oppongono una netta chiusura a tutto ciò che è nuovo. Soddisfatti della loro dottrina, orgogliosi delle conoscenze bibliche, non si rendono conto che Dio sta realizzando il suo progetto di salvezza sotto i loro occhi in Cristo Gesù, l’umile uomo di Nazaret. La loro è un’ottusità di mente e di cuore che preclude ogni apertura al mistero. Pertanto, immensa è la gioia di Gesù nello scoprire che “i piccoli” hanno intuito qualcosa del suo mistero, a differenza dei primi, presunti “sapienti ed intelligenti”. Quella di Gesù è la gioia di chi finalmente si sente compreso dagli altri. E la gioia è talmente intensa che si trasforma, nella prima strofa, in un inno di giubilo, di ringraziamento al Padre che ha  aperto il cuore dei “piccoli” alla comprensione del suo  mistero:”Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”.  I piccoli, ai quali viene rivelato il mistero di Dio, sono i semplici, i trasparenti, coloro che riconoscono i propri limiti e la propria fragilità. Sono coloro che si pongono in un atteggiamento di umiltà e di disponibilità al suo messaggio, il cui contenuto è sempre oltre la saggezza e l’intelligenza umana. Anzi, davanti a Dio non vale la sapienza umana, ma la semplicità del cuore.  Quella di Dio è una logica che capovolge ogni parametro di giudizio e di rapporto; tende a rovesciare ogni schema precostituito, ogni presuntuosa sicurezza. E’ una logica che non si ferma alle grandi cose, ma, come dice San Paolo ai cristiani di Corinto, sceglie “ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti”; sceglie “ciò che nel mondo è debole per confondere i forti”. Gesù si pone in questa preghiera di lode in perfetta armonia con il Padre; e si compiace con Lui, perché ha voluto rivelare se stesso a gente semplice, umile e negarsi alla superbia dei sapienti.

      Nella seconda strofa, Gesù apre uno spiraglio di luce sul suo mistero, mostrando la coscienza della propria natura divina, la consapevolezza della sua trascendenza. E lo fa sottolineando il rapporto unico ed esclusivo che ha con il Padre:”tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. Sono espressioni cariche di mistero nelle quali Gesù dichiara di essere l’unico che conosce totalmente Dio sino al punto di possedere tutto quello che è di Dio. Anzi, dopo aver rivelato che tra Lui ed il Padre c’è piena e reciproca donazione di conoscenza e di amore, abolisce ogni distanza tra Dio e noi, aprendoci alla bellezza della sua divinità, e dando a tutti noi credenti la possibilità di penetrare, attraverso la sua persona di Figlio, nel mistero di luce abbagliante del Padre. Naturalmente, questa bellezza misteriosa di Dio, rivelata ai semplici e agli umili, è possibile afferrarla soltanto se viviamo secondo lo Spirito, se agiamo secondo la mentalità di Dio e non secondo quella del mondo.

     Nella terza strofa, la preghiera di Gesù diventa un invito ai “piccoli” a mettersi sulla sua strada, unica guida per entrare nel progetto d’amore del Padre ed aderire alla sua volontà:”venite a me, voi tutti, che siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò”. Pertanto, mettersi al seguito di Gesù significa sentirsi liberi dal giogo pesante delle prescrizioni, delle formalità culturali con cui Farisei e Scribi imprigionano i loro contemporanei, ed entrare nel giogo dell’amore. Un giogo non più pesante, ma dolce e delicato, che certamente dischiude sentieri di speranza e di vita per tutti gli oppressi ed affaticati, che trovano in Cristo sicuro ristoro e porto di tranquillità.

      “Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime”. Con queste parole Gesù, oltre a lasciarci squarci informativi della sua personalità, del suo carattere intimo e del suo atteggiamento concreto, si pone anche come modello da imitare per apprendere come servire Dio e l’uomo nell’amore. In questa civiltà, dove tutto, cose e persone, vengono misurate con il metro della opportunità, della superbia e dell’arroganza, dove altri tipi di “giogo”, più assurdi e pesanti, opprimono le nostre coscienze, rendendole incapaci di gustare lo stupore della semplicità, Gesù ci invita ad essere trasparenti, a ridiventare  “piccoli”, per conquistare la sua familiarità, condizione indispensabile per vivere la ricchezza dell’amore verso Dio ed i fratelli.

 

L’Eucaristia: struttura portante della vita della Chiesa

La solennità del Corpus Domini trova le sue radici nella venerazione dell’Eucaristia tipica dei secc. XII e successivi. Stabilita dopo le visioni mistiche di Giuliana di Liegi dal suo confessore divenuto papa Urbano IV (Bolla Transiturus del 1264), la festa si svilupperà dopo la pubblicazione delle Decretali (1317) e, soprattutto, per il suo legame con la processione, elemento popolare che vi si inserirà verso la fine del sec. XIII. La solennità del Corpus Domini è da ritenere il culmine della gioia pasquale: nell’Eucaristia Dio sarà con voi fino alla fine del mondo. Il Signore Gesù, dopo l’Ascensione al Cielo, resta e si dona sotto il segno del pane spezzato e del vino, nei quali offre il suo Corpo in cibo e il suo Sangue in bevanda di salvezza e di vita Egli rimane con noi per sempre. Ora noi possiamo incontrare Gesù attraverso la “memoria” di lui, specialmente la “memoria” liturgico-sacramentale (memoriale). Durante la Celebrazione liturgica noi facciamo, infatti, memoria di Gesù, della sua vita, della sua morte, della sua risurrezione, rendendolo in tal modo “presente” in mezzo a noi. Non si tratta, pertanto, di una presenza disincarnata, di una memoria che si affida solo al ricordo psicologico. Si tratta di una memoria che attraverso i segni del pane e del vino mangiati e condivisi dalla Comunità, rende presente Cristo nella sua realtà e nel mistero che ci vengono comunicati. Poiché Cristo è al centro e al vertice di tutta la Storia della Salvezza, l’Eucaristia, memoriale della sua passione-morte-risurrezione, è ricordo e celebrazione (memoriale) di tutta la Storia della Salvezza: lo è delle vicende di Israele, “popolo di Dio”; della vita di Cristo; della storia e della vita attuale della Chiesa, “nuovo popolo di Dio”. L’Eucaristia è la memoria di cui abbiamo bisogno per essere e rimanere cristiani. L’Eucaristia è la memoria che fa una comunità. H. de Lubac diceva: L’Eucaristia fa la Chiesa. E Benedetto XVI: «È l’Eucaristia che trasforma un semplice gruppo di persone in comunità ecclesiale: l’Eucaristia fa Chiesa». È dunque fondamentale che la celebrazione della Santa Messa sia effettivamente il culmine, la «struttura portante» della vita di ogni comunità parrocchiale.

A cura di don Agostino Porreca

Immersi nel nome della Trinità

La tradizione latina colloca al termine del Tempo pasquale la solennità della Santissima Trinità, con l’intento di proporre alla contemplazione adorante dei fedeli l’immagine stessa di Dio, autore della Storia di Salvezza e ragione ultima di ogni umano divenire.

La professione di fede cristiana in Dio Padre e Figlio e Spirito Santo trova nella Sacra Scrittura una sua traccia storica fondativa. Il mistero di Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, nel Nuovo Testamento, si rivela attraverso gli eventi di salvezza che hanno il loro centro nella Pasqua di Cristo.

La Comunione Trinitaria è il vero futuro dell’uomo, la sola che possa assicurare all’uomo un progetto di vita senza limiti perché capace di superare anche la morte.

Dice efficacemente sant’Agostino: «Dio è tanto inesauribile che quando è trovato è ancora tutto da trovare».

Ciò significa che il dinamismo e la creatività umana trovano in lui un orizzonte senza confini e, quindi, un futuro totale.  Dio è Amore. Il mistero di Dio non è un mistero di solitudine, ma di relazione, di reciprocità, di creatività, di conoscenza, di amore, di dare e ricevere.

Nella nostra esistenza quotidiana siamo chiamati a vivere relazioni che siano trasparenza dell’Amore trinitario. Occorre passare dalla contemplazione della Trinità alla “trinitarizzazione” in atto del mistero contemplato.

La solennità della Santissima Trinità è una festa per il mistero di Dio, il suo progetto di salvezza; è anche una festa della Chiesa che è icona della Trinità (Ecclesia de Trinitate); è occasione speciale per esplicitare il dono della fede del Battesimo e lasciarsi avvolgere con stupore dall’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

A cura di don Agostino  Porreca

 

Lo Spirito Santo: Presenza di luce

La Pentecoste è la festa dello Spirito Santo. E’ l’iniziativa congiunta del Padre e del Figlio di inviare lo Spirito sul mondo. Inviato dal Padre e dal Figlio, lo Spirito Santo viene su di noi; è Lui che, dopo il Figlio, si inserisce nella storia della salvezza come l’altra mano del Padre, come dice S. Ireneo. E’ Lui che entra nella vita del mondo come servo di Cristo per interiorizzare nei cuori degli uomini il Vangelo, per diffondere tra loro i beni della Pasqua.
Ma noi conosciamo lo Spirito Santo? Crediamo veramente nella Persona e nell’azione dello Spirito Santo? Ebbene, Gesù ci ha parlato dello Spirito, ce ne ha indicato l’esistenza, ce ne ha rivelato il mistero:”Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio none, egli vi insegnerà ogni cosa……quando me ne sarò andato, ve lo manderò”. Gesù ci rivela anzitutto che lo Spirito Santo è qualcuno, cioè una persona. Egli appartiene al mistero dell’unico Dio, che vive in tre Persone uguali e distinte: Padre Figlio e Spirito Santo. Ci dice che lo Spirito Santo è presso di noi, con noi, in noi; ci santifica di dentro, è la nostra fecondità soprannaturale. Ci dice che “ci insegnerà ogni cosa, ci guiderà alla verità tutta intera”.
Lo Spirito Santo è nella chiesa una presenza di luce, di guida, di continuo arricchimento nei confronti della verità. E’ Lui che ci fa accettare Cristo per quello che è; attraverso di Lui si attua la nostra redenzione. Spesso proviamo stupore nel vedere la vitalità sempre fresca e giovane della Chiesa, ma non ci rendiamo conto che tutto è opera dello Spirito, agente primario di qualsiasi evangelizzazione. Non ci rendiamo conto che tutto continuamente viene vivificato dalla sua presenza invisibile, che aleggia su di noi, scende nei nostri cuori, aprendoci alle meraviglie di Dio.
Ed è proprio la verità e la realtà di questa Presenza misteriosa che trasforma ed accende i discepoli di Gesù, che da essa investiti riscoprono la fortuna di essere suoi discepoli nel desiderio mai spento di rendergli testimonianza sempre e dovunque.
La Pentecoste, infatti, restituisce al mondo la presenza di Gesù, ma in una condizione ed in una forma nuova. Il Cristo sarà ormai nell’uomo, dentro l’uomo, non solo di fronte all’uomo:”in quel giorno, a Pentecoste – dice Gesù – voi conoscerete che io sono in voi”. Nello stesso tempo, iniziano la missione e la storia della chiesa: alla comunità di grazia che Cristo istituisce a Pasqua, lo Spirito dona un’anima. A causa di quest’anima la Chiesa è una realtà vivente. Cristo fonda la Chiesa lungo gli anni della sua opera messianica, ma è a Pentecoste, con l’invio dello Spirito che egli dona ad essa il soffio della vita. Ed è proprio in virtù dello Spirito che essa dura nel tempo ed è capace di penetrare nel mistero di Cristo e nel cuore degli uomini. Senza la forza dello Spirito diminuiscono la fede e la speranza, cresce la paura nei credenti e nella stessa chiesa; si paralizza la missione, si accentuano le divisioni e le distanze. Tutto diventa senza sapore, tutto diventa insignificante. San Bonaventura diceva:”che cosa conta l’uomo, se non ha lo Spirito Santo?”. Tutto ciò che di bello, di positivo avviene nel mondo e nella chiesa è opera dello Spirito Santo. Tutto ciò che di santo si fa e si dice nella chiesa è opera dello Spirito Santo. Ecco perché noi dobbiamo affezionarci al Padre, perché è nostro Padre; al Figlio, perché è nostro Redentore e nostro fratello; allo Spirito Santo, perché è nostro santificatore. Lasciarsi sedurre dallo Spirito di Dio è un gustare nel Figlio l’amore del Padre; è un sentirsi pensato ed amato individualmente da Lui; è un assaporare la tenerezza e la gioia della propria presenza nel cuore di Dio. E sentirsi nel cuore di Dio è un miracolo quotidiano più bello che possa vivere l’uomo.

La Pentecoste:lasciamoci abitare dallo Spirito

La Pentecoste è il memoriale della missione dello Spirito quale dono insuperabile fattoci dal Risorto. Con questo evento ha compimento la grande e unica Domenica di Pasqua e noi facciamo festa perché la vita stessa del Risorto ci è comunicata dallo Spirito. Esso non dice nulla di suo, ma comunica e conferma quanto Cristo ha comunicato e rivelato. La Pentecoste è iniziata proprio la sera stessa della Risurrezione, quando il Signore risorto venne per la prima volta tra i suoi apostoli nel cenacolo e, dopo averli salutati con l’augurio di pace, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi… » (Gv 20,22-23). Cristo ha dato lo Spirito Santo alla Chiesa come il dono divino e come la fonte incessante ed inesauribile della santificazione. La sera stessa della sua risurrezione, con una puntualità impressionante, Cristo adempie la promessa fatta sia in privato che in pubblico, alla donna di Samaria ed alla folla dei Giudei, allorché parlava di un’acqua viva e salutare, ed invitava ad andare a lui per poterla attingere in abbondanza ed estinguere con essa per sempre la sete «E questo diceva – commenta l’evangelista – in riferimento allo Spirito, che avrebbero ricevuto i credenti in lui; infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,39). Così, non appena è avvenuta la glorificazione, quella medesima promessa dell’invio-arrivo dello Spirito paraclito, formalmente confermata ai suoi apostoli , viene immediatamente soddisfatta. Non vi lascerò orfani, vi manderò lo Spirito Santo Consolatore, avrete forza dallo Spirito Santo. Lasciamoci abitare e devastare dalla forza di Dio, dallo Spirito amore. Che entri lo Spirito, cha faccia violenza, che scardini tutte le nostre scuse e le nostre porte chiuse a doppia mandata. Che mandi in frantumi le nostre (finte) difese per risvegliare in noi l’ardore e il desiderio di amare!  Vieni Santo Spirito, Vieni nel mio cuore … Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto. Lava ciò che è sórdido, bagna ciò che è árido, sana ciò che sánguina…. Sia, oggi, l’inizio di una eterna e reiterata Pentecoste. Lasciamoci abitare dallo Spirito.

A cura di Don Agostino Porreca

 

 

ASCENSIONE DEL SIGNORE

L’Ascensione non è un episodio isolato della storia di Gesù. Anzi, tutta la Sua esistenza è compresa fra due punti estremi e reciproci: il Natale e l’Ascensione. Questi due misteri sono uniti da una stretta logica: soltanto Colui che è uscito dal Padre, può ritornare al Padre:”Nessuno è mai salito al cielo – dice l’evangelista Giovanni – fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”. Pertanto, l’Ascensione dà senso pieno al Natale: il Figlio di Dio è disceso dal cielo per farci salire con lui alla destra del Padre. Senza questa risalita al Padre ci risulterebbe difficile comprendere la venuta di Gesù nella nostra storia; non comprenderemmo a fondo la sua vita terrena, la sua passione e morte; e neppure la sua risurrezione.
I due misteri, quindi, si richiamano e si completano: nel mistero dell’incarnazione, il Figlio di Dio si abbassa fino a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione umana; nell’Ascensione, lo stesso Figlio eleva la sua e la nostra umanità, fino a portarla dentro la realtà più profonda di Dio, nella comunione, cioè, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Per cui tale festa ci ricorda che noi non siamo quaggiù per caso, senza un senso; abbiamo invece un futuro, un senso, una direzione di marcia: siamo chiamati alla piena comunione con Dio e con i fratelli. E questa è la nostra vocazione; per cui dobbiamo vivere in maniera degna di questa chiamata: non dobbiamo vivere senza senso né lasciarci intrappolare dalle cose; al contrario, dobbiamo vivere nella “speranza di raggiungere Cristo nella gloria”.
Cristo, con l’Ascensione, entra nella vita nuova, che implica la sua risurrezione, non solo come Dio e Figlio di Dio, ma anche come uomo e Figlio dell’uomo. Egli è il nuovo Adamo ed il rappresentante dell’umanità creata nuovamente; l’umanità che porta con sé al Padre, avendo Egli con l’incarnazione assunto la nostra condizione umana. Perciò, San Agostino dice:”Nella sua incarnazione Cristo discese da solo, ma non salì al cielo da solo”. Salendo al cielo Cristo non solo non ci ha abbandonati, ma addirittura ci ha indicato la strada per raggiungerlo nella gloria. Una festa di gioia e di grande attesa, dunque, quella che celebriamo oggi. Proprio come Gesù aveva detto ai suoi apostoli:”E’ bene per voi che io me ne vada”. Un andare che non significa partenza dal mondo né assenza dalla vita umana, ma è l’inizio di un nuovo modo di essere presente nel mondo. E il Vangelo specifica la natura di questa nuova presenza di Cristo risorto.
Egli continua ad agire nella storia in favore dell’uomo attraverso la missione e la predicazione degli apostoli:”Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura”; continua ad essere presente attraverso le opere dell’amore compiute.
Nello stesso tempo, ci affida un duplice compito: essere persone di comunione nel mondo come segno ed anticipo della comunione con Dio, a cui tutti siamo chiamati; essere annunciatori autentici dell’amore di Dio che “è Padre di tutti”.
La festa dell’Ascensione, pertanto, non ci proietta nella ricerca affannosa del soprannaturale:”che fate lì fermi a guardare il cielo?”; né ci spinge alla semplice contemplazione del divino, ma ci mostra l’orizzonte verso cui dobbiamo camminare, senza distrarci dalla vita quotidiana né dai problemi che essa presenta. Senza lasciarci sedurre da un eccessivo angelismo né da un pauroso terrenismo, dobbiamo vivere il quotidiano attraverso i segni di comunione e di solidarietà, nella consapevolezza che qui, su questa terra, progetteremo e costruiremo il nostro destino di eternità.

VI Domenica di Pasqua

Le letture di questa domenica, tratte tutte dal Nuovo Testamento, sono di fondamentale importanza per noi cristiani, in quanto ci permettono di gustare uno dei momenti più profondi della rivelazione del mistero d Dio, fatta da Gesù Cristo: il mistero dell’unità e della sua Trinità, ”Io pregherò – dice Gesù – il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore”. Come domenica scorsa, così anche oggi siamo invitati a meditare su di un brano del Vangelo, sempre di Giovanni, preso dai discorsi di addio che Gesù rivolge ai discepoli nell’ultima Cena. Le parole anche adesso sono vibranti di consolazione e di speranza per i suoi discepoli. Alle espressioni di conforto e di sostegno di domenica scorsa:” Non sia turbato il vostro cuore”, oggi aggiunge qualcosa in più, che costituisce un ulteriore tassello rivelativo del suo amore:” Non vi lascerò orfani – dice – ritornerò da voi”.  Ebbene, prima di penetrare la ricchezza del brano evangelico, è opportuno soffermarci, in breve, sulle altre due letture. Nella prima, tratta dagli Atti degli Apostoli, vediamo come i cittadini della Samaria, convertiti alla fede in Gesù Cristo e battezzati nel suo nome grazie alla predicazione ed alle guarigioni operate da Filippo, ricevono lo Spirito Santo per mezzo di Pietro e Giovanni. Siamo davanti alla Pentecoste samaritana e, pertanto, ad uno dei primi esempi di reale espansione della Chiesa oltre i confini della Giudea. Nella seconda lettura,  ripresa dalla prima lettera di San Pietro, l’Apostolo esorta tutti i cristiani e, quindi, anche noi,  una volta ricevuto lo Spirito Santo, a testimoniare nella vita il Signore sempre con gioia, anche nelle tribolazioni; pronti a dare una risposta a chiunque ci chieda di dare ragione della nostra fede e della nostra speranza, le quali, coniugate con la testimonianza, qualificano lo stile del vero cristiano, che si fa annunciatore di un messaggio oltre che di fede, anche di speranza.

A questo punto, esaminiamo il brano evangelico, che si apre e si chiude con il tema dell’amore, il luogo privilegiato in cui Dio si manifesta in Gesù Cristo e carta di identità del fedele cristiano:” …… Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama, sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”. Qui troviamo il metro di valutazione per saggiare il nostro amore verso Gesù: l’osservanza dei comandamenti, nei quali Egli esprime la sua volontà.  Pertanto, osservare i comandamenti significa accogliere Gesù Cristo nella nostra vita, lasciarci guidare dalla sua parola, diventare nel mondo la sua visibilità.  Ed è proprio questo amore, testimoniato dalle opere, che ci rende prediletti non solo di Gesù, ma anche del Padre: ”Chi mi ama, sarà amato da mio Padre ed anch’io lo amerò”. Diventiamo così dimore di Dio e tempio della Trinità non se conosciamo di più, ma se amiamo di più, se siamo più fedeli ai comandamenti, la cui osservanza ci fa realmente presenti nel cuore di Dio. Ma Gesù non promette soltanto una più intima rivelazione di Sé a chi lo ama. Egli, conoscendo le difficoltà e le tribolazioni nella vita dei credenti, promette anche il dono dello Spirito Santo, designato come un altro “ Consolatore”. E lo chiama “Paraclito”: un termine greco che significa avvocato, difensore che intercede presso il Padre a favore di tutti noi credenti, aiutandoci a perseverare nella fede. Quella dello Spirito Santo, nella storia della salvezza, è un’azione non alternativa o sostitutiva dell’azione o della presenza di Gesù Cristo. Anzi, unico suo scopo è proprio quello di assicurare la presenza di Cristo nella Chiesa, di illuminarci sulla parola da Lui, “guidandoci alla verità tutta intera”. Nulla di nuovo Egli ci rivela; solo ci introduce nella comprensione del mistero più profondo di Cristo. Ci aiuta a conoscerLo meglio, a viverLo più intensamente; ci rende testimoni credibili del Vangelo. Solo lo Spirito Santo ci fa scoprire il senso più pieno del Vangelo e ci converte a Cristo. Quante volte espressioni della Scrittura ascoltate o lette sono sfumate del tutto inosservate, senza toccare il nostro cuore? Purtroppo, quando in noi non c’è l’azione dello Spirito Santo, la parola di Dio non è diversa dalle altre parole. E lo stesso Gesù, senza la esperienza dello Spirito Santo, rimane soltanto un bel concetto, una semplice conoscenza intellettuale, un ricordo distante e fugace. Invece, quando lo Spirito Santo, che è lo Spirito del Padre e del Figlio, invade il nostro cuore, allora tutto diventa diverso e trasformante: il Vangelo non più un libro di saggezza o un codice di norme morali, ma una persona viva, a cui ci rivolgiamo spontaneamente, in un autentico dialogo di preghiera. Bellissime, a tale proposito, sono le parole pronunciate dal vescovo ortodosso Ignazio di Latachia, antica Laodicea, in Turchia, alla III^ assemblea Ecumenica Mondiale delle Chiese, celebrata nel 1968 a Upsala. Con un linguaggio ispirato, riferendosi allo Spirito Santo, dice: ”senza lo Spirito Santo, Dio è lontano; Cristo resta nel passato; il Vangelo è lettera morta; la Chiesa una semplice organizzazione; l’autorità una dominazione; la missione una propaganda; il culto un’evocazione e l’agire cristiano una morale da schiavi”.  Invece, “guidati dallo Spirito Santo, Cristo risorto si fa presente, il Vangelo si fa potenza di vita, la Chiesa realizza la comunione trinitaria, l’autorità si trasforma in servizio, la missione è una Pentecoste, la liturgia è memoria e anticipazione, l’agire umano viene deificato”. In altre parole, lo Spirito Santo, senza fare cose nuove, ma solo facendo nuove tutte le cose, ci insegna a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Gesù; ci ripresenta e ci fa vivere nella verità il gusto di essere la risurrezione ci Cristo Signore; ci fa sentire il gusto di essere pietre vive, impegnate nella costruzione dell’edificio della Chiesa, Corpo do Cristo, in cammino verso la casa del Padre.

V Domenica di Pasqua

Le letture bibliche di questa domenica, ricche di contenuto teologico, delineano una stupenda catechesi. Nella prima, ripresa dagli Atti degli Apostoli, leggiamo squarci storici della primitiva comunità cristiana, organizzata come un “corpo vivo”, con diversi compiti, come il servizio della carità, della parola e del culto. Nella seconda, tratta dalla prima lettera di San Pietro, vediamo le connotazioni di questo “corpo vivo”, quale “popolo sacerdotale”, i cui membri sono pietre vive della Chiesa, che ha come pietra angolare il Signore risorto. Nel brano evangelico di Giovanni, troviamo un accorato invito di Gesù a credere sempre più profondamente nel suo mistero di Figlio del Padre. Ma, data la molteplicità delle lezioni che possiamo trarre da queste letture, è opportuno fermarci al brano del Vangelo, preso dai “discorsi di addio” che Gesù rivolge ai discepoli nell’ultima Cena. Gesù inizia con parole di consolazione ai suoi, perché non si perdano d’animo: ”Non sia turbato – dice – il vostro cuore”. La sua è una finezza psicologica che mira a liberarli da uno stato di disorientamento e di amarezza in cui sono caduti dopo l’annuncio del tradimento di Guida e i ripetuti riferimenti alla sua morte di croce. E’ un momento particolare della vita di Gesù, che gli apostoli percepiscono con grande sofferenza. Ecco perché, in quest’ora drammatica, nella quale sembrano tramontare speranze e certezze, Egli più che preoccuparsi di se stesso per quanto gli sta accadendo, si sforza di fortificare la loro fede in Dio ed in Lui: ”Abbiate fede in Dio – dice – e abbiate fede anche in me”. Un doppio imperativo con il quale Gesù non solo rivela implicitamente il mistero divino della Sua Persona uguale e distinta da quella del Padre, ma cerca anche di creare una più intensa fiducia nei discepoli, quasi a voler dire che l’amore del Padre e del Figlio è sempre presente nella vita di ciascuno di loro. E pur di dare una maggiore concretezza alle parole di incoraggiamento, offre un ulteriore motivo di consolazione, dichiarando che “nella casa del Padre vi sono molti posti……Ed Io vado a prepararvi un posto”. E’ una immagine bellissima con cui Gesù configura il Regno di Dio come una casa ricca di molti posti o dimore, dove tutti noi, suoi seguaci, un giorno vivremo in comunione di amore e di vita eterna con il Padre celeste e con lo stesso Gesù Cristo glorificato. E questa è la grande promessa di Gesù: “Ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”. Certamente siamo al cospetto di una solenne dichiarazione d’amore, la quale si riferisce immediatamente alle apparizioni del Risorto, che comportano la certezza della Sua persona permanente in mezzo a noi, ma, in linea prospettica, tale dichiarazione ci richiama alla parusia, cioè al grande ritorno di Cristo Signore, come Salvatore definitivo ed universale. Ed anche se questa parusia, o grande ritorno di Gesù, non è un fatto imminente, essa fonda l’attesa della Chiesa e sostiene il nostro presente, di pellegrini verso la Casa del Padre. Così Gesù, indicando ai discepoli il Padre  come dimora eterna, ultimo traguardo della loro vita, li istruisce e li corrobora nella fede. In altre parole, Gesù – come dice San Agostino – “prepara le dimore, preparando coloro che dovranno abitarvi”. Purtroppo, questo linguaggio di Gesù non viene compreso dagli Apostoli, tanto è vero che quando aggiunge:” e del luogo dove io vado, voi conoscete la via”, Tommaso, con un forte senso di realismo, domanda: ”Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. La risposta di Gesù è “una rivelazione di altissima certezza”, che “mira ad inculcare la fede in Lui, quale  unica via per giungere al Padre”: ”Io sono – dice – la via, la verità e la vita”. Tocchiamo il massimo della rivelazione del mistero di Cristo in relazione al Padre e alla nostra salvezza. Il punto principale, anche se Gesù si presenta come “verità e vita”, è racchiuso nella presentazione della Sua Persona come via: “Egli è la via”, in quanto è la “verità”, cioè la rivelazione diretta, visibile e definitiva del Dio invisibile. Non solo, Gesù oltre ad essere la “via della verità”, è anche la “via della vita”, nel senso che Egli è il datore della vita eterna di Dio offerta agli uomini. In altre parole, Gesù è il crocevia per arrivare al Padre: ”Nessuno viene al Padre – dichiara – se non per mezzo di me”. E qui si inserisce, come perla preziosa, un’altra richiesta, quella dell’Apostolo Filippo: ”Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Una domanda che offre a Gesù la possibilità di affermare la perfetta identità tra Lui ed il Padre. Così, prima esprime la sua meraviglia: ”Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?”. E poi spiega la propria identità con il Padre. La quale è  comunanza di essere :”Io sono nel Padre ed il Padre è in me”. E’ reciprocità e continuità di rivelazione: ”Le parole che io vi dico, non le dico da me”; ma “le dico come il Padre le ha detto a me”. Pertanto, gli Apostoli, che si erano fermati alla semplice fisionomia umana di Gesù e non riescono ad andare oltre, ricevono un profondo insegnamento, quello, cioè, di vedere in Gesù Figlio la presenza personale del Padre invisibile. Ed è proprio per questo che Gesù si fa “via” unica e necessaria per giungere alla casa del Padre. Bellissima, a tal uopo, è un’antica preghiera bizantina: ”Fa, o Signore, che i nostri occhi, fissi nei tuoi, sappiano riconoscere la luce del Padre, sappiano leggere nelle tue labbra le parole del Padre, sappiano scorgere nelle tue mani le opere che il Padre compie sempre, sappiano seguire i tuoi passi che ci conducono alla gloria del Tuo Regno”.

 

IV Domenica di Pasqua

La liturgia della Parola di questa domenica è dominata dalla figura del buon Pastore. E’ un’immagine questa molto cara agli Ebrei, le cui origini nomadi dimostrano chiaramente la familiarità che avevano con il proprio gregge. Un rapporto di familiarità che trasportano anche sul piano religioso, fino a configurare l’amore di Dio come quello del pastore verso le pecore. Anzi, Dio stesso viene indicato dai profeti come il Pastore di Israele, che fa uscire il suo popolo dall’Egitto, come da un recinto, conducendolo verso i nuovi pascoli della terra promessa. Senza spaziare con ulteriori riferimenti biblici, basti pensare al salmo 22, recitato oggi come salmo responsoriale, nel quale gustiamo, in maniera feconda, questa bellissima immagine, che poggia sulla garanzia di sicurezza e di felicità che il Signore, come il Pastore per il suo gregge, offre con la sua Presenza in mezzo a noi. Una sicurezza che troviamo  racchiusa nel ritornello del salmo: ”Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Anche nella seconda lettura, ripresa dalla prima lettera di Pietro, ritorna l’immagine del pastore. Un pastore, però, che ci conduce verso i pascoli dell’Eternità con il suo sacrificio, facendosi centro di attrazione per tutti,  chiamati a seguire le orme da Lui tracciate: ”Cristo patì per voi – dice San Pietro – lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme……Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”.

Ebbene, a questo punto, esaminiamo il brano evangelico di Giovanni, nel quale leggiamo il discorso che Gesù fa di se stesso come buon Pastore a Gerusalemme; e, precisamente, dopo il miracolo della guarigione del cieco nato. Il linguaggio adoperato è preso dagli usi pastorali del tempo e manifesta un valore altamente teologico di autorivelazione: Gesù, cioè, si presenta come il pastore atteso dalle genti, che ama fino al sacrificio supremo; e, nello stesso tempo, si definisce come la porta unica e necessaria per accedere alla salvezza. Questa rivelazione di Sé la constatiamo sin dalle prime batture della parabola, dove si staglia un confronto drammatico fra il pastore vero ed il ladro e brigante, nonché fra il loro modo diverso di entrare nel recinto delle pecore. Un confronto, questo, che prepara bene l’autopresentazione di Gesù quale “porta delle pecore” e “buon pastore”, e certamente configura un taglio polemico contro tutti coloro che penetrano nell’ovile non per la porta, ma attraverso altre parti con furbi espedienti. A differenza di questi ultimi, falsi pastori, che creano solo disagi e scompiglio, morte e distruzione, Gesù è il vero Pastore, la cui azione nei confronti delle pecore è segno di manifestazione di familiarità ed intimità. Infatti, Egli “entra per la porta”; le chiama individualmente, una per una; e non genericamente, ma ciascuna con il proprio nome. Esse ascoltano, conoscono la sua voce e lo seguono, sicure di approdare ai fertili pascoli. Pertanto, Gesù applica alla sua persona il ruolo di guida e di salvatore che l’Antico Testamento attribuisce solo a Dio. Usa la formula biblica “Io sono”, che evoca le parole di Dio a Mosè dal roveto ardente: ”Io sono Colui che sono”. Parole che danno una misteriosa definizione di Dio. E Gesù, dicendo: ”Io sono la porta delle pecore”, “Io sono il buon Pastore”, dimostra di aver una chiara coscienza di essere e di operare come Dio. Anzi, come Dio, si manifesta pastore del suo popolo. Purtroppo, questo discorso, con la triplice immagine della porta, del pastore e delle pecore, non viene compreso dagli ascoltatori. Per cui Gesù, senza sminuire il contenuto della rivelazione, chiarisce la pastoralità di queste immagini, sottolineando la sua prerogativa messianica: ”In verità, in verità vi dico: “Io sono la porta delle pecore: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà ed uscirà e troverà pascolo”. E se la porta è l’unico ingresso, attraverso cui entriamo ed usciamo, Gesù non solo ne è il custode, ma è la porta stessa. Ci troviamo al cospetto di un ricco simbolismo pastorale, che, calato nelle nostre attuali categorie mentali, dischiude orizzonti di grande apertura   del mistero di Cristo, il quale, designandosi unico depositario della salvezza si rivela unico Messia ed unico salvatore dell’umanità. Una finalità salvifica che Gesù realizza passando attraverso la “porta stretta” della croce, sulla quale  è stato nello stesso tempo Pastore dell’umanità errante ed agnello sacrificale, immolato per la nostra redenzione. Una missione questa che affida alla Chiesa, suo gregge, la quale non deve mai dimenticare la sua funzione di “porta” attraverso cui passano le pecore ed i pastori. Né deve trascurare il servizio di amore e di donazione verso tutti, soprattutto gli ultimi. Tutto ciò assume un significato particolare in questa domenica, dedicata da Paolo VI° (1963) alla “Giornata mondiale delle vocazioni”. Durante questa giornata ognuno di noi, prendendo coscienza che una Chiesa senza preti è una Chiesa senza vita, è invitato a pregare il Signore, perché la renda viva nella costanza gioiosa dei consacrati, che già sono al suo servizio. E’ invitato a pregare il Signore perché mandi nuovi presbiteri, che sappiano vivere e testimoniare con l’ardore della carità la loro vocazione. Soprattutto, è invitato a pregare il Signore, perché illumini i nostri vescovi nel discernimento delle scelte, onde evitare l’inserimento nelle loro Chiese particolari, di falsi vocazioni, la cui presenza è solo fonte di malessere morale e spirituale.  In un mondo già segnato dall’odio, dalla violenza e dall’oppressione, dove però ancora non è spenta la fame di giustizia, di verità e grazia c’è bisogno di autentiche testimonianze sacerdotali, sincere e limpide, le cui manifestazioni di comportamento si intrecciano in una normale linearità di condotta, nella quale ognuno possa leggere la presenza silenziosa, ma reale ed efficace di Cristo.