Categoria: Fede

TERZA DOMENICA DI AVVENTO

La liturgia della parola di questa terza domenica di avvento è dominata da un intenso afflato di gioia. A differenza delle prime due domeniche, ove abbiamo respirato un’aria più austera e penitenziale, qui assaporiamo una gioiosa speranza, una gioia segreta e profonda, che consiste nell’attesa della salvezza ormai vicina.

Nella prima lettura, ripresa dal libro di Isaia, sentiamo il grido del Profeta, che è un vero invito alla gioia:” Io gioisco pienamente nel Signore – dice – la mia anima esulta nel mio Dio”. Il salmo responsoriale ci fa pregare con le stesse parole proclamate da Maria nel Magnificat, le quali certamente si ispirano al brano di Isaia:”L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore”. Anche S.Paolo, scrivendo alla comunità di Tessalonica, propone un codice di comportamento per accogliere il regno di Dio che è in mezzo a noi:”Siate sempre lieti – dice -, pregate incessantemente……non spegnete lo Spirito”. Certamente sulle labbra di Giovanni Battista – figura centrale del Vangelo di oggi – non troviamo il sorriso. Le sue parole, asciutte e penetranti, sono lame sottili che affondano senza guardare in faccia a nessuno. Però, anche nel suo cuore c’è la gioia, che nasce dalla consapevolezza di annunciare la venuta di Gesù e dal desiderio di rendergli testimonianza. Del resto, quella della gioia è una dimensione essenziale al nostro credere ed al nostro vivere cristiano, che dovremmo sempre testimoniare, se vogliamo evitare accuse di incapacità a mostrare il volto di salvati, di redenti. Il messaggio delle letture bibliche si pone come campanello di allarme per uscire dalla insoddisfazione, dalla tristezza, dall’assenza di valori vitali; nello stesso tempo, rappresenta uno stimolo alla sequela, all’annuncio, alla testimonianza gioiosa. Naturalmente, la gioia proclamata dalla liturgia odierna non è la felicità festaiola, superficiale e sfuggente di un natale vanificato e commercializzato dalle esigenze del consumismo, ma è la certezza della presenza misteriosa di Gesù in mezzo a noi, punto di riferimento delle nostre piccole e grandi scelte. Ebbene, il brano evangelico è tutto centrato sulla persona di Giovanni Battista. E’ lui che rivela Gesù ad Israele; è lui che può e deve rivelarlo anche a noi in questo natale che sta ormai per venire. E’ lui però che potrebbe rivolgerci lo steso rimprovero che fece ai Giudei:”in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”.

Infatti, come loro, anche noi, se non avremo una fede alimentata dallo Spirito, rischiamo di non vedere Gesù, che ritorna e sta in mezzo a noi. Il Battista è il testimone per eccellenza a favore di Gesù. E la sua è una testimonianza che continua tuttora nella fede della Chiesa e nell’annuncio liturgico. L’evangelista Giovanni, autore del quarto vangelo, ne delinea, in maniera precisa, il ritratto di precursore di Gesù, i cui lineamenti, già domenica scorsa, ci sono stati disegnati dal vangelo di Marco. Nelle parole evangeliche odierne emerge tutta la grandezza del Battista e la sua missione nella storia della salvezza:”Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce…”. Il Battista, quindi, non è il Messia, non  è la Luce. Egli è la voce dell’Altissimo; è “l’uomo mandato da Dio”, per rendere testimonianza alla luce che sta per sorgere, Gesù Cristo. E’ l’autentico interprete della testimonianza cristiana. La sua figura è impressionante. La sua personalità è esemplare. Grande è la sua linearità di condotta. La sincerità e la lealtà; l’onestà e l’amore per la verità fino al sacrificio di sé; l’umiltà e l’assenza di vanagloria davanti al plauso popolare, esaltano la sua persona e la rendono attuale, oggi più che mai, dove il bisogno di autenticità e di testimonianza è fortemente sentito. Infatti, nello smarrimento mentale, morale e religioso della nostra società, non c’è tanto bisogno di maestri, quanto di testimoni, che sappiano mostrare il motivo ed il fondamento di una speranza sicura: Gesù Cristo. C’è bisogno di testimoni della gioia che sappiano preparare con opere di carità fraterna e con la preghiera fiduciosa, il cuore di ogni uomo al Cristo che viene. Purtroppo, la visione di ciò che ci circonda: violenze, discriminazioni, povertà autentiche e nuove, insicurezze esistenziali, reazioni sconsiderate, è espressione di un profondo malessere.

Noi siamo tristi. Non viviamo più bene. Sedotti dalla cultura delle apparenze, dalla volontà di dominio su persone e cose, abbiamo abbandonato Dio. Anzi, “Dio non si rivela più, sembra     essersi      rinchiuso    nel    suo    cielo, quasi    disgustato dal  nostro agire”. Il silenzio di Dio è una grande tragedia per l’umanità, che “si sente priva di pace, di salvezza e speranza”. Ma noi possiamo squarciare questo silenzio, facendolo ridiventare Presenza viva, Parola vera e dialogante, a condizione che il nostro cuore, illuminato dallo Spirito, si apra alla conversione. Ed è proprio la conversione di cuore e di condotta che cambia i pensieri e le decisioni di Dio verso di noi, facendoci non solo gustare il ritorno alla gioia e alla speranza futura, ma riscoprire anche i suoi continui passaggi nella ferialità della nostra vita.

IMMACOLATA CONCEZIONE

La Chiesa oggi celebra la solennità dell’Immacolata Concezione.

E’ l’occasione propizia per rileggere la storia di Maria alla luce della Sacra Scrittura. Infatti, qui noi troviamo l’esatta valenza della sua forza propulsiva nella realizzazione del progetto salvifico di Dio. Qui scopriamo la sua bellezza, tanto antica e sempre nuova, che sedotta, sin dall’inizio, dal Signore, diventa ascolto, accoglienza del suo creatore. Qui gustiamo la sua semplicità che la fa “piccola”, pronta ad aprirsi alle meraviglie che l’Onnipotente opererà in Lei. Qui la contempliamo donna e madre insieme, in un atteggiamento di adesione incondizionata alla volontà di Dio, che la rende modello compiuto di fede pregata e vissuta. Ebbene, questa creatura luminosa viene indicata quale punto di riferimento storico-salvifico proprio nel momento di massima rottura dell’uomo con Dio. Proprio in occasione del peccato originale, noi vediamo apparire sullo scenario della storia Maria, donna di infinite potenzialità, la quale capovolgerà le sorti dell’umanità, aprendola alla speranza di una nuova vita in Cristo, l’uomo perfetto. Noi sappiamo che il progetto di Dio è la santità dell’uomo. Per l’attuazione di tale progetto, Dio cerca di coinvolgere Adamo ed in lui ogni essere umano, di tutti i tempi. Ma l’uomo, questo bambino capriccioso, invece di lasciarsi sedurre dalle vie di Dio, preferisce percorrere strade alternative, facendosi imbrigliare nella spirale del diavolo.

A questo punto tutto diventa tenebra. Tutto sembra destinato al fallimento. Il progetto di Dio viene scombussolato, l’uomo si ritrova solo con se stesso, senza alcun dialogo con Dio, che ormai sente lontano, quasi suo nemico. Ma Dio, Padre paziente e misericordioso, non l’abbandona al suo destino: lo cerca e lo ritrova. Così ricostruisce il suo progetto originario di salvezza, aprendo il futuro alla speranza. Una donna, Eva, aveva causato la grande disfatta spirituale; un’altra, Maria, ricostruirà la grande vittoria:” Io porrò inimicizia tra te e la donna – dirà Dio al serpente tentatore – tra la tua stirpe e la sua stirpe; questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. E questa è la “buona novella” per l’umanità decaduta, nella quale viene prefigurata la nostra redenzione: Maria è la nuova Eva, che ci dà la vita, generando Cristo, vera vita del mondo. Non solo, ma preannunziata da Dio, diventa la sua privilegiata. E  non poteva essere diversamente, essendo stata predestinata ad essere sua Madre: Lei, semplice creatura, pensata e destinata quale Madre del suo Creatore.

Nel brano evangelico odierno La vediamo dialogare con l’Angelo. Cerca di capire, ma senza sottrarsi alla volontà di Dio. All’annuncio della maternità non si lascia travolgere, ma chiede:”Come è possibile? Non conosco uomo”. E’ il trionfo della sua femminilità illibata. Così, una volta rassicurata, che ciò che sta per compiersi in Lei, è opera dello Spirito Santo, brilla la sua adesione al progetto di salvezza:”Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.

Sono parole di infinita obbedienza che ci fanno contemplare Maria come esempio perfetto di purezza:”Non conosco uomo”; di umiltà: “Eccomi, sono la serva del Signore”; di candore e semplicità:”Come è possibile”; di obbedienza e di fede viva:”avvenga di me quello che hai detto”. Quelle di Maria sono parole che superano all’infinito la disobbedienza di Eva. Anzi, in queste parole, troviamo una capacità di risposta e di cooperazione, che esalta la stessa scelta gratuita compiuta da Dio nei suoi riguardi. Rispondendo all’Angelo: “Avvenga di me quello che hai detto”, Maria permette alla “grazia” di invadere il mondo e di creare quell’umanità nuova, di cui Lei è l’esemplare più bello. Così, diventa Madre di Cristo, permette al Verbo di porre la sua tenda in mezzo a noi, di essere l’Emmanuele, il Dio con noi. Con la sua fede, Maria è veramente lo strumento scelto dal Signore per portare a compimento la redenzione. Anzi, in quest’opera redentiva è la persona più unita alla persona divina di Gesù: insieme formano la coppia della nuova alleanza, la nuova Eva e il nuovo Adamo, che riscatteranno il genere umano. Possiamo dire che Gesù ha preso Maria come sua compagna nella gioia, nella predicazione, nella sofferenza, nella morte. E questa unione di Maria a Gesù non è casuale, ma rientra nel progetto di Dio. Infatti, all’origine della Incarnazione c’è l’incontro tra l’amore del Padre, che dona suo Figlio, e quello di Maria che lo accoglie. In questo incontro Maria si impegna, come nuova Eva, per tutta l’umanità. Si impegna a nome di tutti noi. Non solo, ma con il suo “sì” impegna anche tutti noi ad accogliere Gesù. Pertanto, il suo unico obiettivo è condurre tutti al proprio Figlio. Davanti alla figura stupenda di Maria, quale deve essere il nostro comportamento? Quale devozione esprimerLe? Ebbene, la devozione alla Madonna non è un atteggiamento sorpassato. E’ sorpassato il devozionismo, ma non la sua scoperta personale. Certo, non basta il semplice culto esteriore: S. Rosario, pellegrinaggi ….; è necessario un culto interiore, che consiste nel santificare la vita sull’esempio della sua vita. Solo a queste condizioni, noi scopriamo che Maria è una persona viva e non una statua o un fantasma del passato. Anzi, La sentiamo affettuosa compagna nel nostro pellegrinaggio; la veneriamo Madre premurosa che ci aiuta a riconquistare il cuore di Dio. E precisamente, ad entrare nel cuore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, di cui Lei, Maria, è Figlia del Padre, Madre del Figlio, Sposa dello Spirito Santo.

 

SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

avTutti e tre i brani biblici esprimono un senso profondo di attesa gioiosa e trepidante. C’è qualcosa di inaudito, di nuovo, di molto importante che deve avvenire; c’è soprattutto Qualcuno che deve venire. E per questo Qualcuno, Gesù, ogni credente è invitato a vivere nell’attesa, proiettato nel futuro, senza però mai perdere il sapore del proprio presente, della propria quotidianità, nella quale deve saper leggere e cogliere la presenza di Dio. Perciò, la nostra non è un’attesa inerte, passiva, ma viva e creativa; non è un’attesa che si esaurisce nella semplice rievocazione di un fatto passato, quale è appunto la nascita storica di Gesù, ma è un porsi in un atteggiamento di vigile responsabilità verso il Signore che viene: la seconda venuta di Gesù, quell’ultima e definitiva, quando Gesù,cioè, verrà per giudicare il mondo e per introdurci nel suo regno di gloria. Noi siamo e viviamo questo frattempo, questo intermezzo tra la I^ e la II^ venuta non chiusi nel guscio delle nostre aspettative, ma su di una linea di preparazione e di vigilanza mendicanti del cielo, aperti al divino che entra nella nostra storia. Viviamo questa attesa nella consapevolezza che Dio non è una statua fredda, rigida, indifferente alle nostre ansie, ma è un Padre di misericordia e di consolazione, fermo sulla soglia di casa per accogliere il peccatore pentito. “Consolate, consolate il mio popolo -dice il vostro Dio-– Leggiamo nel Profeta Isaia. Parlate al cuore di Gerusalemme” perché “ha scontato la sua iniquità, cioè si è convertita”.

Dio non smette mai di stupirci. Gerusalemme oggetto del Suo castigo, diventa oggetto di amore senza confini. Dio si fa tenero, di una tenerezza materna e paterna, sino a manifestarsi pastore nella tutela dei suoi figli.

E questo cambiamento di salvezza non è un fatto meccanico oppure automatico. E’ la conversione di Gerusalemme che quasi costringe Dio alla diffusione della sua misericordia, della sua consolazione.

A questo punto si inserisce una voce misteriosa che il profeta lascia volutamente nell’anonimato per creare un clima di maggiore attenzione:”una voce grida: nel deserto preparate la via al Signore”.

Subito dopo lo stesso Profeta immagina che uno si distacchi dal gruppo dei reduci e si affretti a portare il buon annuncio a Gerusalemme:”Alza la voce, non temere,… “Ecco il vostro Dio. Ecco il Signore, viene con potenza. Come pastore Egli fa pascolare il gregge…….conduce pian piano le pecore madri”.

Sono parole belle, disarmanti che da una parte manifestano la bontà di Dio, dall’altra originano in noi credenti una vera nostalgia di Dio.

Intanto, quella voce misteriosa del profeta Isaia, esce dal suo  anonimato e nel Vangelo riceve un volto ed un nome: è Giovanni Battista. Il quale predica e prepara la venuta di Gesù non solo con la sua voce secca e vibrata, ma soprattutto con il suo stile di vita, che è una predica travolgente.

Il fatto poi che vesta di peli di cammelli, mangi locuste e miele selvatico o viva nel deserto, oltre a dimostrare il suo spirito di penitenza, evidenzia la ricerca appassionata delle cose che contano: Dio, la preghiera, la libertà interiore, la linearità di condotta. Elementi questi che costituiscono quella conversione per il perdono dei peccati che il Battista predica ed esprime plasticamente mediante il suo battesimo di acqua.

Come si vede, Giovanni Battista lega l’avvento del Messia alla conversione del cuore: là dove non c’è conversione, il Messia non viene.

Ora quale è il nostro atteggiamento nei confronti di questo dono di Dio che viene?

Il pericolo è la nostra indifferenza oppure la tentazione di crearci un dio, un piccolo dio a nostra immagine e somiglianza. L’indifferenza che ci fa sentire attaccati al guinzaglio di un padrone inesistente;l’immagine ridotta di Dio che è il frutto delle nostre idolatrie quotidiane.

L’Avvento si pone come un campanello di allarme per non cadere in queste situazioni. Anzi,se non usciamo dalla trappola di queste tentazioni,l’avvento di Dio sarà semplicemente un’etichetta di circostanza,un’emozione occasionale,senza alcuna potenza trasformante,senza alcuna volontà di conversione,l’unico e vitale veicolo per farsi prendere e sedurre dalla vicenda di Gesù Cristo.

E’ il cuore che dobbiamo svuotare,per poterlo riempiere  di Gesù.

E, avendo Gesù nel cuore,ci sentiremo realmente nel cuore di Dio.

 

 

 

 

 

XXXIV Domenica

cristoOggi è l’ultima domenica dell’anno liturgico. Con essa termina il tempo ordinario, costituito da 34 domeniche, durante il quale abbiamo meditato il mistero di Cristo, Messia dei poveri e Messia della sofferenza. Tale ciclo si chiude con la visione della regalità di Cristo, che sintetizza tutta la storia della salvezza. Anche se tale festa, Cristo, re dell’universo, è di recente istituzione, essendo stata proclamata da Pio XI con l’enciclica “Quas primas”, alla fine dell’Anno Santo 1925, essa risale a Cristo stesso, il quale, alla domanda di Pilato se davvero fosse re, risponde:” tu lo dici: io sono re”. Ma la Chiesa, proponendo tale solennità a conclusione dell’anno liturgico, ci invita a penetrare il mistero di Cristo, quale re – pastore dell’umanità e giudice universale. E le tre letture bibliche odierne ci offrono un quadro abbastanza completo del senso di questa regalità, che non va vista in termini di potere, ma di servizio; non di semplice sovranità su cose e persone, ma di amore premuroso verso tutti. A tale proposito, bellissima è la prima lettura, ripresa dal libro di Ezechiele, ove il Signore appare come il Pastore del suo popolo. Un pastore – re che non domina, ma serve il suo gregge. Il profeta sottolinea questa regalità di servizio, usando una serie significativa di verbi: ”cercare, passare in rassegna, ricondurre le pecore disperse, curare quelle più deboli e ferite”, verbi che esprimono la paterna premura di Dio, che si fa amoroso compagno di viaggio dei suoi figli. Nello stesso tempo, ci anticipa che questa regalità di amore è anche una regalità di giudizio, così come leggiamo nella frase conclusiva di Ezechiele:”A te, mio gregge – dice il Signore Dio – : ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri”. Una frase che prepara lo scenario del giudizio finale, che troviamo descritto nel brano evangelico odierno.

Ebbene, anche San Paolo nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinti, celebra la regalità di Cristo, il quale è re soprattutto perché ha vinto la morte. L’Apostolo nella risurrezione vede un gesto di potenza, di regalità sovrana che supera gli stessi confini della morte. Nello stesso tempo, vede nella vittoria di Cristo, nuovo Adamo, la nostra futura vittoria. Infatti, se Cristo risorto è la primizia della nuova umanità dei redenti, proprio perché primizia, Egli ci unirà in questo suo trionfo finale, consegnandoci, insieme con Lui, al Padre. Lo stesso concetto, ma in maniera più pregnante, lo troviamo nel Vangelo di oggi, che conclude il discorso escatologico di Gesù. Qui, Matteo ci presenta l’ultimo atto della storia della salvezza, la scena del giudizio universale che Gesù Cristo, indicato con vari titoli di trascendenza: Figlio dell’uomo, re, pastore, Signore e giudice, emetterà sull’operato degli uomini, quando compariranno davanti a Lui. E il Suo sarà un giudizio di benedizione o di maledizione; di premio o di condanna; di vita o di morte. Sarà una Krisis, una separazione, cioè, dei buoni dai cattivi, dei figli della luce dai figli delle tenebre:” Il Figlio dell’uomo……separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri”. Il metro usato nell’atto di “separare” non si basa sulla straordinarietà delle azioni compiute, ma sulle opere di carità e di misericordia; sullo spazio di amore che abbiamo saputo vedere e costruire per i nostri fratelli: ”ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Con queste parole Gesù tesse la tela della salvezza sulla forza della carità, calata soprattutto sugli ultimi, con i quali mostra di identificarsi :”in verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Pertanto, il nostro incontro con Cristo va preparato ed anticipato, riconoscendoLo, in questo frattempo di vita terrena, nella persona dei poveri, degli affamati, degli emarginati. Il che significa che ogni volta che le nostre mani si riempiono di carità per donarla ad altri; ogni volta che  il cuore si apre all’accoglienza in un abbraccio di amore concreto; ogni volta che il nostro sguardo si posa o i nostri piedi si incamminano verso chi è nell’indigenza, noi entriamo in perfetta sintonia con Dio; viviamo con le stesse mani, lo stesso sguardo, gli stessi piedi di Cristo. E saremo da Lui benedetti, ricevendo la ricompensa dell’eredità eterna. Viceversa, ogni volta che chiudiamo il nostro cuore al prossimo o fingiamo di non sentire il grido di dolore di chi è in difficoltà; ogni volta che gli opponiamo le barriere dell’egoismo, intenti solo ad accumulare per noi stessi e sordi alle richieste di carità, noi non facciamo altro che squarciare la tela della salvezza, con il rischio di essere allontanati dal regno: ”Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. Pertanto, alla sera della vita e della storia, noi saremo giudicati sull’accettazione o sul rifiuto di Cristo, che ha voluto identificarsi con tutti quelli che soffrono. Anzi, il prossimo, qualunque sia, diventa il vero specchio nel quale possiamo vedere e misurare la nostra identità cristiana; l’unico video nel quale possiamo leggere il grado di amore verso Cristo.

 

 

Non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo!

serNon è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo!
«Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà» (Evangelium gaudium). La preghiera imbastita non solo delle nostre richieste di grazie, ma soprattutto di gratitudine verso il Signore fa posare automaticamente il Suo sguardo amorevole su di noi. E noi come reagiamo alla provocazione di chi ci domanda:-Che amore è il tuo se non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? La Sua vita, i Suoi modi di trattare i poveri, i Suoi gesti, la Sua coerenza, la Sua generosità quotidiana e semplice, ed infine la Sua dedizione totale verso gli altri si rivelano preziosi, perché sono capaci di fornire risposte a tutti i nostri interrogativi esistenziali e/o personali. «La Verità è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare. La nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore». Solo in questo modo, coloro che soffrono, coloro che domandano il nostro aiuto, coloro che attendono da noi una parola di conforto riconosceranno nel nostro cuore la Sua presenza, e non sapranno più fare a meno della Sua infinita tenerezza. «Non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera» (E.G.)

A cura di Teresa Perillo

 

Domenica Primo Novembre: tutti i Santi

Ci può essere la santità nel tempo presente?

popScrive papa Francesco:«Chi si mette in cammino per praticare il bene si avvicina già a Dio, è già sorretto dal suo aiuto, perché è proprio della dinamica della luce divina illuminare i nostri occhi quando camminiamo verso la pienezza dell’amore» (Lumen fidei). Quindi, in ogni momento della vita si può alimentare la nostra santità. Come? Ad esempio, stando in guardia dalla tentazione dei pregiudizi; ignorando i difetti altrui per metterne in risalto soltanto lo splendore e la bellezza delle  virtù; rinunciando a qualcosa di superfluo per compiere un’opera di carità verso chi ha più bisogno; predisponendoci con discrezione all’ascolto delle ansie e delle preoccupazioni degli altri, per cercare di trovare insieme una soluzione ai problemi del quotidiano; instillando coraggio e fiducia in chi ci sta vicino; adoperandoci per l’armonia e la concordia sociale perché solo testimoniando la nostra fede, allontaneremo il pessimismo dovuto al fallimento e alla disperazione. «LA GIOIA DEL VANGELO riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (Evangelium gaudium).

Per cui, la risposta alla domanda iniziale è affermativa. Infatti, pensare ai Santi non implica soltanto un riferimento a uomini e donne eccezionali del passato, che sono venerati con tanta devozione, ma anche il riferimento a persone che con la loro vita – proprio adesso – stanno imprimendo una traccia indelebile sulla Terra, per via della loro mentalità rivoluzionaria, dell’agire fuori dall’ordinario, per il possesso di particolari carismi. Principalmente, il concetto di “santità” non ammette parametri definiti una volte per tutte. Ciascuno di noi, infatti, ne ha una propria singolare visione, dipendente dalla sua sensibilità.

Infine, cerchiamo sempre di trarre il sommo bene di cui siamo capaci anche nelle circostanze più difficili, così già quaggiù, il mondo respirerà il profumo sublime della beatitudine celeste!

A cura di Teresa Perillo

La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi

«La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio strato fondamentale ci si accorge che esso combacia col proprio destino e si trova la pace». Così scriveva Cesare Pavese nell’opera autobiografica il “Mestiere di vivere”. Ogni singolo giorno che viviamo può essere paragonato al passare da una stanza ad un’altra di una dimora che non conosciamo; tuttavia, abbiamo un tempo prestabilito per addentarci in essa. Senza dubbio, posso affermare il fatto che questa riflessione mi è stata ispirata da un sogno che ho fatto.
L’ambientazione onirica mi ha proiettata in un corridoio collegato ad una camera luminosa. Quest’ultima aveva delle grandi vetrate al posto delle pareti. Tant’è vero che, attraverso esse riuscivo chiaramente a scrutare le tonalità via via sempre più sfumate del blu di un’insenatura marina. Ma, non appena le creste delle onde (a causa del vento) hanno raggiunto altezze incredibili, sconvolgendo la quiete di quel paesaggio, in preda allo spavento mi sono immediatamente allontanata da lì. A questo punto, non conoscendo il luogo in cui mi trovassi, ho cercato di pianificare un tragitto da percorrere. Tutto inutile: perdevo facilmente l’orientamento, ed ero sempre più insicura in merito alla strada che avrei dovuto intraprendere! Subito dopo, entrando in un’altra stanza (non molto lontana dalla precedente) tappezzata con pareti di velluto rosso e rifiniture in oro, ho avvertito un forte senso di inquietudine per essere finita proprio lì, tra la noia manifestata dai suoi occupanti e lo sfarzo eccessivo degli arredi. Da quel momento in poi, stabilii che avrei preso la direzione che mi avrebbe suggerito il caso! Per cui, il tempo di chiudere per un attimo gli occhi quando li riaprii, mi ritrovai di fronte gli scaffali polverosi di una libreria. Mentre stavo leggendo un titolo scritto in esili caratteri greci, per chissà quale motivo fui costretta ad abbandonare improvvisamente anche quel posto. Soltanto all’uscita mi resi conto di avere tra le mani il testo dell’Iliade omerica. Fra me e me, mi rassicuravo dicendo che, non c’era tempo da perdere, non bisognava fermarsi! Per non parlare poi delle persone che passavano al mio fianco, senza neanche accorgersi della mia presenza, distratti da chissà che cosa! In seguito, in preda a questo smarrimento apparentemente senza via d’uscita, ho preso delle scale per scendere ai piani inferiori. Più tardi, sono inconsciamente rinsavita a proposito della ragione per la quale ero lì. Ero sul punto di rinunciare all’impresa, quando alla fine decisi di incamminarmi verso un giardino. Non potevo sperare in nulla di buono, dal momento che non avevo ben presente chi dovessi incontrare e, il luogo esatto in cui dovesse avvenire tutto ciò! Però, l’unica cosa che mi fece sentire protetta in quel momento fu il fatto di potermi riparare sotto la chioma di un maestoso ulivo. I suoi rami mi diedero l’impressione di volersi annodare ai capelli, per non lasciarmi andare via. Subito dopo, avvertii la presenza di qualcuno a pochi passi da me. Ne ebbi timore, per cui mi alzai di scatto per vedere se mi sbagliavo o meno. Stentavo a credere ai miei occhi, quando capii che pochi metri mi separavano dalla figura celeste di un Angelo! Cosa che egli lasciò intendere subito, senza enigmatici giri di parole. Mi rassicurò pure in merito al fatto che, per tutto il tempo non mi aveva mai lasciata sola! Infatti, è dal cuore che si era messo in contatto con me. Il seguire l’eco della sua voce mi aveva aiutata ad uscire da quel labirinto!

In fin dei conti, anche se si è trattato solo di un sogno, esso si è rivelato in gran parte pregno di verità nel riscontro con degli eventi, che poi si sono in qualche modo verificati. A questo proposito, la lettera agli Ebrei 12,2 ripresa da papa Francesco al paragrafo numero 57 della Lumen Fidei fa proprio il caso nostro sostenendo che, la fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino. All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce. Cristo è colui che, avendo sopportato il dolore, «dà origine alla fede e la porta a compimento».
A cura di Teresa Perillo

Restate in me,porterete frutto

L’episodio evangelico della peccatrice che, nel contesto della casa del fariseo cosparge di olio profumato i piedi del Maestro, non prima di averli bagnati con le sue lacrime ed asciugati con i suoi capelli, resta nel tempo una delle pagine più commoventi del Vangelo di Luca. La donna, disprezzata dal resto della società per la sua discutibile morale, con il suo atto di omaggio verso Gesù fa l’esperienza unica e consolante dell’Amore e della Misericordia divina. Infatti, al Signore sono occorsi quei semplici gesti, quell’atto d’amore per appurare il cuore pentito della donna.
Ciò ci riconduce a quanto affermato da Benedetto XVI, a proposito della missione di Gesù. La sua solidarietà con tutti noi implica che Egli si esponga alle minacce e ai pericoli dell’essere umano. Doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova (Gesù di Nazaret). Per cui, le parole pronunciate da Gesù alla donna:«I tuoi peccati sono perdonati! La tua fede ti ha salvata, va’ in pace!-» valgono come monito per ciascuno di noi, a non temere di avvicinarci a Lui, mediante il sacramento della Confessione.
Papa Francesco nell’enciclica Evangelium Gaudium insiste proprio sul fatto che annunciare, credere in Lui e seguirlo, non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù.
Pertanto, l’uomo, connubio di fede e ragione, deve lasciarsi guidare dall’Amore, confidare nella meraviglia rappresentata dal Suo Perdono, per poter realizzare a pieno quell’armonia interiore che solo il comprendere e il credere insieme possono produrre, essendo due note del medesimo accordo.

A cura di Teresa Perillo

XXII DOMENICA T. O.

Nelle letture bibliche di questa domenica troviamo una continuità diretta con quelle di domenica scorsa. Lì abbiamo celebrato la messianicità trascendente di Cristo, figlio del Dio vivente; qui scopriamo, attraverso le stesse parole di Gesù, che tipo di Messia Egli è. Non il Messia del trionfalismo temporale, tanto atteso, destinato alla liberazione di Israele, ma il Messia della Croce. Lì abbiamo meditato la grande professione di fede di Pietro, ispirato dall’Alto, nella divinità di Cristo e la sua costituzione quale “roccia” di fondamento per la Chiesa; qui vediamo la brusca reazione di Gesù che ravvisa “una pietra di scandalo” in Pietro, che vorrebbe impedirgli di percorrere la via della passione. Ebbene, il brano si compone di due parti, le quali, anche se ben distinte, sono collegate tra loro da un unico filo conduttore: la Croce, necessaria per Cristo ed i discepoli ad entrare nella gloria del Padre.
Nella prima parte, Gesù mostra le linee della sua messianicità, spiega, cioè, il contenuto vero del suo essere Messia. Nulla compie al di fuori della volontà del Padre, al quale è sempre obbediente, anche se la via da percorrere è quella della Croce. Ed è proprio questa prefigurazione tragica che Gesù fa della sua vita, che Pietro respinge, cercando di ostacolargli la sua andata a Gerusalemme, dove si sarebbe consumato il martirio. Purtroppo, Pietro, pur non rinnegando la propria fede in Cristo, ancora non pensa secondo Dio, ma secondo i propri schemi umani, sospesi alla mentalità del tempo, in attesa di un messianismo politico, senza alcun riferimento alla sofferenza, alla sconfitta. Ed è questo modo di pensare, incapace di cogliere il senso delle cose di Dio, che Gesù stigmatizza aspramente, giungendo a qualificare Pietro come strumento di Satana: ”Lungi da me, Satana! – gli dice – tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”. Pertanto, nella vita di Gesù la Croce non è un incidente di percorso, non previsto ed improvviso, ma un disegno prestabilito del Padre, verso il quale Egli va incontro con consapevolezza, quale Servo sofferente e Messia della Croce, obbediente “fino alla morte ed alla morte in Croce”.
Nella seconda parte del passo evangelico, constatiamo che la Croce nella volontà di Dio non è prevista solo per Gesù, ma anche per coloro che si pongono alla Sua sequela. Gesù chiaramente rivela la necessità per ogni discepolo di sentirsi coinvolto nella sua sofferenza. Anzi, non è vero cristiano chi non continua in sé la passione di Cristo. A tale proposito, Gesù detta le condizioni per essere cristiani: rinnegare se stessi e prendere la propria croce. E come Lui nella passione e morte si è annientato, svuotato; si è donato totalmente agli altri per ritrovarsi nella gloria della risurrezione, così il cristiano è invitato a fare altrettanto: deve perdersi per vivere; deve rinunciare all’avere per essere; deve amare Cristo al di sopra di tutto, se vuole vivere sempre e per sempre in Dio. Il cristiano non ha davanti a sé una via diversa da quella di Cristo. Solo assimilato liberamente alla Sua passione, può un giorno partecipare della gioia della risurrezione. Ebbene, le parole che troviamo in questa seconda parte del brano evangelico sono veramente paradossali. Ci mettono in crisi, richiamando le nostre responsabilità di fronte agli orizzonti di eternità. Smascherano le false sicurezze riposte nella cultura del benessere e del potere, ponendoci davanti al giudizio finale sulla vita, quando il Figlio dell’uomo renderà a ciascuno secondo le sue azioni: ”Quale vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?”. Domande brucianti che penetrano nella profondità dell’anima, aprendo lo scenario della fugacità della vita e della fragilità delle cose, con il rischio incalcolabile di scelte sbagliate che possono gettarci nella perdizione. Certamente la via percorsa da Cristo e da Lui a noi indicata non è facile. La porta per la quale siamo chiamati a passare non è larga, ma stretta. E’ un intarsio di sofferenze e di rinunce, che sperimentiamo quotidianamente, fino a provare amarezza per un Dio che prima seduce e poi sembra abbandonarci a noi stessi. Emblematica è la confessione del profeta Geremia nella prima lettura, dove l’amore di Dio viene presentato come un atto di seduzione:” Mi hai sedotto, o Signore – dice il Profeta – ed io mi sono lasciato sedurre”. La consapevolezza di essere amato e di aver corrisposto al suo amore esigente, non lo libera però dal tormento che le continue rinunce e sofferenze gli causano. Anzi, lo affliggono sino al desiderio di ribellarsi e di non essere più un suo portavoce. Ma non lo fa, perché avverte che la parola di Dio, come “fuoco ardente” lo penetra, lo avvinghia nel cuore e nella mente, tanto da dire: ”mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”. Quella di Geremia è l’esperienza di una vera crocifissione, che prefigura la sofferenza di Cristo. E come questa consiste nella coerenza di spendersi e perdersi per Dio, sicuro di trovarsi nella gioia del Suo amore. In un mondo dove l’unica misura di valutazione di persone e cose è lo spessore del piacere e della gioia a basso costo, è difficile recepire il messaggio della croce e della rinuncia. Però, se ancora resiste un pensiero di eternità in noi, se ancora Cristo è Qualcuno da amare e da seguire, non possiamo disimpegnarci dalle linee di comportamento da Lui tracciate. Pertanto, svuotarci per riempirci di amore verso Dio ed il prossimo, vivendo lo spirito delle Beatitudini, è e resta la condizione fondamentale per condividere la persona di Cristo nella nostra vita.

DOMENICA XXI

Il Vangelo di Matteo in genere è definito “il Vangelo ecclesiastico per eccellenza”. E il brano odierno ne costituisce una sintesi, essendo un po’ come un compendio di tutta la Cristologia e della stessa ecclesiologia. In esso infatti ci viene presentato il mistero di Cristo ed il mistero della Chiesa. L’episodio storico nel quale troviamo inserita questa ricchezza dottrinale si verifica a Cesarea di Filippo, dove Gesù pone ai suoi discepoli due domande, il cui eco è sempre di forte attualità anche per noi che spesso costruiamo di Cristo un’immagine riduttiva e conforme ai nostri schemi mentali. Nella prima Gesù chiede:” La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Sembra una richiesta di semplice curiosità, finalizzata a conoscere il pensiero della “gente” circa la Sua persona. E gli Apostoli rispondono, riportando appunto le diverse opinioni della gente:” Alcuni dicono Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. E quella di “profeta” era la qualifica più alta che la gente comune potesse attribuire ad una persona. Ma Gesù non si ferma a tali considerazioni, ben sapendo che non coincidono con la realtà che nasconde in sé. Perciò, incalza gli apostoli con una seconda domanda, per conoscere il loro parere personale su di Lui: “Voi chi dite che io sia”. A questo punto interviene Pietro che parla a nome di tutti e dice:” Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E’ la grande confessione di fede di Pietro. Una confessione completa e matura, che riconosce non solo la messianicità di Gesù, ma anche la sua figliolanza divina, a differenza degli altri evangelisti, che nella confessione di Pietro proclamano soltanto  Gesù come il Messia, promesso dai profeti e atteso dal popolo. Così, nel Vangelo di Marco leggiamo: ”Tu sei il Messia”; in Luca troviamo:” Tu sei il Messia di Dio”; infine, in Giovanni viene riferito: “Tu sei il Santo di Dio”. Solo in Matteo, pertanto, abbiamo questa doppia confessione, che non dovrebbe però meravigliare più di tanto, soprattutto se consideriamo che già in occasione del cammino di Gesù sulle acque agitate del lago di Tiberiade, i discepoli, prostrandosi, avevano esclamato: ”Tu sei veramente il Figlio di Dio”. In altre parole, essi comprendono che in Gesù non c’è semplicemente un profeta, portavoce della rivelazione di Dio, ma il Figlio di Dio Padre. Tocchiamo così il vertice della fede in Gesù Cristo, che Pietro coglie non per la sua intelligenza, ma per una speciale rivelazione di Dio. E’ la fede, dono che gli viene dall’Alto, che lo apre alle meraviglie di Dio. E Gesù lo sottolinea, dicendogli: ”Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”. Qui Gesù non solo si compiace con Pietro per la primizia della conoscenza della sua divinità concessagli dal Padre, ma anche per la funzione di preminenza che avrà all’interno della Chiesa.

Del resto, la Chiesa si fonda sulla fede nella divinità di Gesù. Senza questa fede risulterebbe un semplice insieme di persone, ma non una comunità che Dio convoca e salva in Cristo Suo Figlio. In questa luce comprendiamo meglio la seconda parte del passo evangelico, il cui contenuto, esclusivo di Matteo, è di grande rilevanza teologica. A Pietro che ha confessato Cristo come “Figlio di Dio”, Gesù risponde con una promessa formale, usando tre immagini, che specificano la missione speciale che intende conferirgli. Con la prima lo chiama non più Simone, ma Pietro; e, giocando con questo nuovo nome, lo pone quale “pietra” di fondamento su cui edificherà la sua Chiesa:” Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. La persona di Pietro diventa la pietra-base sulla quale Gesù costruirà l’edificio spirituale che è la Chiesa, che non si sgretolerà mai, essendo come “casa fondata sulla roccia”.

Con la seconda immagine Gesù, paragonando il Regno dei Cieli ad una casa, affida a Pietro “le chiavi” di accesso:”A te darò le chiavi de Regno dei Cieli”; chiavi che simboleggiano l’autorità di cui verrà investito. Con la terza immagine:”tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”, Gesù attribuisce a Pietro il potere di proibire e permettere un determinato comportamento, il potere di escludere o di ammettere nella comunità. In altre parole, Pietro viene costituito il custode ed il garante della dottrina e della morale della comunità. E questa pienezza di autorità concessa da Gesù a Pietro non termina con la morte dell’Apostolo, ma si trasmette ai suoi successori, i Papi, quali vescovi di Roma. Del resto Gesù non fonda una Chiesa limitata al destino terreno di un uomo, ma la vuole con un valore universale ed eterno. Per cui, le prerogative ricevute da Pietro non sono di scadenza, ma si perpetuano nei suoi successori, eredi del suo compito come della sua autorità. Ma davanti alla domanda iniziale di Gesù: ”Voi chi dite che Io sia?” e alla risposta di Pietro:”Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente”, quale è la nostra posizione? Noi in chi crediamo? Chi è Gesù per noi? Che cosa è la Chiesa? Chi rappresenta il Papa? Purtroppo, di fronte a tali domande, ci siamo fermati alla soglia del mistero, distratti dalla cultura dei falsi idoli.  Abbiamo preferito non andare oltre, per non aprirci nella fede all’autentica conoscenza di Cristo e della Chiesa. Invece, oggi più che mai, tramontate tutte le velleità ideologiche, abbiamo bisogno di conoscere a fondo Gesù, la Sua Persona. Il che è possibile soltanto  attraverso la lettura del Vangelo e la preghiera: condizioni essenziali per gustare nello spirito la vera identità di Gesù e per innamorarci della Chiesa, la quale, per quanto spesso disprezzata, resta per tutti noi l’unico porto di tranquillità e di intimità con Dio.